Perché i videogiochi violenti piacciono così tanto?

Di Andrea Peroni 22 Novembre 2022 03:59

Vai alla pagina principale di Gaming

Call of Duty, Grand Theft Auto, Apex Legends, o ancora Fortnite, Assassin’s Creed, l’apparentemente innocuo MultiVersus e il recete reboot di Saints Row. Tutti questi celebri franchise di videogiochi hanno un comune denominatore: sono violenti. Chi più, chi meno, questi videogiochi sono tra i nomi più importanti dell’industria dell’intrattenimento, capaci di spaventare tutti i competitor e di annientare la concorrenza anche a fronte di un piccolo passo falso. Call of Duty: Vanguard, uscito lo scorso anno, è tra i più odiati capitoli dell’intero franchise, eppure ha guidato la classifica del 2021 e quest’anno si è arreso solo a Elden Ring. Gta 5, che a settembre ha spento la sua nona candelina, ha superato da pochi mesi l’impressionante quota di 170 milioni di unità vendute.

Tutte queste produzioni, si diceva, hanno un elemento in comune, la violenza cioè con la quale permettono al giocatore di interpretare la storia e vivere l’esperienza. Da qui, ovviamente, sorge la domanda: perché i videogiochi violenti attirano così tanto interesse? Cosa spinge gli utenti a interessarsi a questi prodotti invece a, tanto per dirne uno, Tetris?

Gli esperti ricercatori delle facoltà di Biologia e Psicologia dell’università di Sydney si sono posti le stesse domande, e hanno deciso di approfondire la questione curando uno studio pubblicato recentemente su Motivation Science. Michael Kasumovic, uno degli autori di questo studio, ha spiegato i risultati della ricerca, indicando che i videogiochi violenti vengono preferiti poiché capaci di soddisfare i bisogni psicologici dell’uomo, quali migliorare le capacità nei confronti degli altri e superare le nostre paure. La violenza, dunque, viene vista come un tramite da parte della psiche umana per poter raggiungere un obiettivo più alto, quello cioè di migliorare se stessi.

Violenza è come sport, secondo la nostra mente

Il paragone più naturale nella ricerca di Kasumovic è quello con il mondo dello sport, che da sempre sfida gli esseri umani a superare i propri limiti. In effetti, i videogiochi violenti sembrano stimolare proprio le aree della psiche che riguardano queste sfide, mettendo in mostra quella rabbia, anche agonistica, che spesso non può essere espressa diversamente. Competere a livello sportivo richiede sforzi che non tutti vogliono o possono compiere, costringendo a ripiegare su altro. I videogiochi violenti, spiega Kasumovic, “aiutano a esplorare le nostre paure intorno alla morte e possono essere un aiuto ad esprimere emozioni”.

Alla base della scelta di esplorare videogiochi che fanno della violenza la loro componente ludica principale, però, c’è anche altro. Le difficoltà che molte persone, specialmente giovani, incontrano a livello sociale, facendole scontrare con un mondo in cui le interazioni e i rapporti sembrano sempre più difficili da instaurare ma soprattutto mantenere, rappresentano un’altra componente fondamentale che porta gli utenti ad abbracciare la violenza, seppur virtualmente parlando. L’inferiorità all’interno del gruppo sociale, unita al desiderio innato di trovarsi in una posizione di dominio, porta sempre più utenti ad appassionarsi a questo genere di contenuti, specie oggi che il mondo dei videogiochi multiplayer online sta vivendo un’espansione incredibile.

“È possibile che le persone provenienti da gruppi sociali inferiori siano attratte dai videogiochi violenti” spiega nuovamente Kasumovic, “per il desiderio di raggiungere uno status più elevato, che forse possono ottenere nel gioco”. I videogame multiplayer, in tal senso, offrono al giocatore l’appagamento più importante, poiché è in grado di ottenere “un feedback istantaneo sul risultato della prestazione, e c’è un feedback positivo che spinge a giocare di più per migliorare nel gioco e nei confronti degli altri”.

La ricerca della University of Sydney non si limita a esporre le motivazioni dietro la scelta della violenza. Kasumovich spiega infatti che la situazione occorre monitoraggio che varia da caso a caso, e la categoria più a rischio è ovviamente quella dei più giovani, che spesso non hanno la capacità per comprendere quando fermarsi. “Questo può essere problematico se prende il sopravvento sulla propria vita e diminuisce la capacità di prendersi cura di sé, e pensiamo che alcuni individui potrebbero essere più inclini a questo rispetto ad altri”.

 

© Copyright 2024 Editoriale Libertà