Furto all’urna di Scalabrini: condannato a due anni e 4 mesi il terzo complice

13 Maggio 2014 17:50

Messa per la ricollocazione dell'urna del beato Scalabrini

Si è concluso con una condanna a due anni e 4 mesi il processo in contumacia al terzo uomo coinvolto nella razzìa sacrilega avvenuta nel Duomo di Piacenza il 13 aprile 2013, quando dalla salma del beato Scalabrini vennero trafugate quattro reliquie. La refurtiva, composta da un anello, un rosario in oro massiccio, un calice e una croce, il cui valore è stimato tra i 6mila e 8mila euro, non è mai stata rintracciata. Gli investigatori hanno individuato i responsabili del furto in tre soggetti milanesi: due di loro, ora ai domiciliari, erano già stati condannati dal tribunale di Piacenza a due anni di reclusione.
Nell’udienza di oggi sono stati ascoltati in qualità di testimoni monsignor Anselmo Galvani, all’epoca dei fatti parroco del Duomo e un agente della squadra mobile di Piacenza, intervenuto sul teatro del furto per il sopralluogo.
Sulla teca di plexiglass, dove sono custodite le spoglie del Beato, la scientifica ha rilevato l’impronta di uno dei tre membri della banda e constatato che una delle porte della basilica era stata leggermente forzata dall’interno, come aveva riferito lo stesso sagrestano.
Dall’esame dei tabulati telefonici – illustrato in aula dall’agente di polizia – risulta che tutti e tre i membri della banda si trovavano in città la mattina del 13 aprile, tra mezzogiorno e le 13, presunto orario in cui venne messo a segno il colpo durante la chiusura della basilica e in cui i loro cellulari agganciarono le celle di piazza Duomo, corso Vittorio Emanuele e via Maculani, prima che il trio tornasse con la refurtiva a Milano.
Il pubblico ministero Arturo Iacovacci ha chiesto una condanna a 5 anni di reclusione e 500 euro di multa. L’avvocato Giandanese Nigra, legale dell’imputato, ha chiesto l’assoluzione per mancanza di prove, precisando che il suo assistito difficilmente avrebbe potuto sollevare la teca del Beato o forzare la porta, avendo un’arto superiore leso e non funzionante. La sentenza di condanna è stata pronunciata dal giudice Giuseppe Bernardi Tibis.

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