Kamlalaf, dall’Uganda le riflessioni di Antonella: “Nel dolore incontro la vita”

01 Agosto 2014 16:38

DSC_6991 (6)-800

In viaggio con il gruppo di Kamlalaf in Uganda, Antonella Romano ha inviato le sue riflessioni, dopo i primi giorni trascorsi nella capitale ugandese dove Africa Mission – Cooperazione e Sviluppo ha una delle proprie sedi.

“E’ passata la prima settimana a Kampala e finalmente riesco a scrivere. Fino ad ora sono sfuggita alla carta e alla penna, ho dato delle scuse alla mia coscienza. Sfuggire a qualcosa è sempre comodo, si evita il faccia a faccia con propri pensieri. Il mio primo viaggio lunghissimo, il mio primo viaggio in Africa, il mio primo viaggio al di fuori dell’Europa, il mio primo viaggio senza mio padre. Lontano da famiglia, amici e casa, entro in un altro mondo e lo faccio con un silenzio forzato.
L’arrivo a Kampala, la capitale dell’Uganda è di notte, una notte che lascia trapelare una contraddizione. Avverto subito la diversità del buio silenzioso, ingannevole e attendo con calma l’indomani. Inizio da subito a sentirmi inappropriata e inadeguata ad un posto così confuso; non capisco. Non capisco perché devo girare in un pulmino, costretta a spiare tra le ombre e le macchie di vetri infangati quel mondo tanto diverso.
Solo questa notte, solo ora che la mia valigia è pronta per ripartire di nuovo verso Moroto, capisco tutto. Capisco il mio malessere, i miei dubbi. Dopo aver visto lo slum vicino alla Great Valley School, la scuola sostenuta da Africa Mission, comprendo la protezione dei miei accompagnatori. Nei giorni trascorsi qui, mi sono accorta che ho visto solo il sipario di questo enorme teatro a cielo aperto. Ne avevo intuito il tessuto: fatto di lamiere, ferro arrugginito e impolverato, impalcature di legno, pilastri che si susseguono e che sostengono stracci che diventano case. Penso alla parola “traffico”. Di solito è quello che incontro sulla tangenziale di Napoli, è quello rumoroso di Piazza Garibaldi, è quello che fa uscire il peggio di te, ti fa dire le parolacce, ti fa essere prepotente perché vuoi passare. Il traffico è una parola che non piace ai frettolosi, ai viaggiatori, a chi deve programmare. Il traffico è l’ostacolo per quel mondo che va di corsa e che ha voglia di arrivare sempre per primo.
Qui, invece, il traffico mi piace e spero sempre di incontrarlo. Mi permette di fare una foto, mi permette di riuscire a vedere oltre la lamiera. Tra l’affollarsi di macchine e motociclette riesco a scorgere la vita. Ma solo qualche giorno fa, entrando per la prima volta in uno slum, si è aperto quel sipario ed è entrata di scena la povertà. Pendenze, altipiani, dossi, salite e discese sono interrotte da fogne ed odori nauseanti. Non riesco ad capire la geografia di questi luoghi, mi sfugge il principio con cui è “disegnata” una casa. Anto, cosa dici? Casa? È un termine che sa di lusso, sa di soldi, sa di benessere, è una bestemmia. In ogni passo che faccio e che mi porta in quel mondo tanto diverso, il mio stomaco si muove, un dolore mi attraversa tutto il corpo, mi paralizza, mi toglie il fiato.
E lo stesso dolore lo vedo negli occhi dei miei compagni di viaggio. Non ci parliamo, ma tutti ci capiamo in silenzio e ringrazio Dio di avere le scarpe, perchè possono forse proteggermi da quel suolo rosso, un rosso contaminato da spazzatura e letame. Calpesto una bustina di sapone in polvere “Ariel”, quello delle lavatrici, ma qui non ci sono lavatrici. Tutto è lavato a mano in strada, tra l’accumulo di bacinelle, che vengono sfregate, strofinate, risciacquate… ma Anto, lo sporco non va via. E capisco. Capisco che sto entrando nell’intimità di una parte del mondo. Tutto è accumulo, tutto è sovrapposto, tutto si innalza ma con un equilibrio instabile. Tra le fessure di lamiere e disordine, incontro guancette che si piegano e diventano sorrisi smaglianti, incrocio gli occhi dei bambini, occhi da ciglia curvate. Gli occhi, gli unici fari di questa scena nera. Mi dicono “ciao”, mi sorridono ed entro nel loro salotto, sono nella loro strada. Ma è l’anticittà. E ancora traffico: traffico di gente, plastica bruciata, caprette, donne, bambini e ancora bambini. Sto male perché in questo “teatro” la scena è fissa, è reale, non verrà rimontata altrove. Ripenso al pulmino e penso che sono una privilegiata; capisco che sono fortunata a vedere quel triste spettacolo dietro al vetro di un pulmino.

DSC_6992 (5)-800

© Copyright 2024 Editoriale Libertà