“A Fiorenzuola si torna a vivere un’esperienza surreale”

20 Novembre 2020 10:38

“Non vorrei pazienti Covid perché non so se avrò la forza di superare anche questa guerra”. È la testimonianza dell’operatrice sanitaria Carla Sforza Visconti, in servizio all’ospedale di Fiorenzuola, chiamato nuovamente ad accogliere i pazienti da Coronavirus. Le sue parole, piene di emozione e preoccupazione, sono state riportate dalla pagina Facebook dell’Ausl di Piacenza.

“Speravo di non avere più a che fare da vicino con questo maledetto grande male – racconta Carla – un virus terribile che uccide. Pensavo di non dover più stare in prima linea e rischiare la vita restando al mio posto con i colleghi medici, infermieri, operatorio sociosanitari, fisioterapisti e personale di pulizia. Adesso che so cosa ci aspetta, allora ancora non sapevo. Forse non è andato tutto bene, ma ora dobbiamo rifarci su le maniche e lottare di nuovo per uscirne vincitori. Resisteremo sul campo con onore, con turni snervanti in situazioni mai immaginate, infaticabili contro il dolore del nostro prossimo e contro il nostro. Troppi contagi, troppi ricoveri, speravo di poter lavorare con pazienti non infetti ma purtroppo anche l’ospedale di Fiorenzuola non è più Covid free. Non è per la paura del virus, non è per i tutoni da indossare o le maschere da portare e nemmeno perché non si potrà bere un sorso d’acqua se avremo sete o andare in bagno se saremo vestiti. A questo purtroppo ci siamo abituati. Non volevo tornare reparto Covid per le ferite della prima ondata e per l’emotività che ci scorre ancora dentro, che abbiamo il dovere di asciugare, anche se pure dice molto di quello che è avvenuto. Non volevamo tornare dove abbiamo combattuto, abbiamo pianto e alla fine abbiamo riso sperando di aver vinto. È una vera e propria battaglia. Si torna a vivere un’esperienza surreale che mai avremmo immaginato di vivere”.

“QUELLA DISTESA INFINITA DI BARE IN CAMERA MORTUARIA…” – In un altro passaggio, l’operatrice sanitaria di Fiorenzuola ricorda i momenti più duri affrontati durante la prima ondata di pandemia: “Pazienti che entrano e stanno male e non puoi far altro che curarli stando il più distante possibile, vedere che sono soli e spaventati e non poterli aiutare più di tanto perché ti devi dividere fra tutti, vederli morire e ricordarti del numero infinito di bare quando scendevi in camera mortuaria. Pazienti che di te vedranno solo gli occhi e nulla più, pazienti che non avevamo neanche il tempo di conoscere, di cui ci ricordavamo solo i nomi. Ti tornano in mente giorni di persone in coma farmacologico e speranze di un risveglio che forse non sarebbe arrivato”.

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