Processo d’appello Caruso: “Confermate 20 anni”. La difesa: “Non è un mafioso”

06 Maggio 2022 12:00

Un uomo della ‘ndrangheta per il quale deve essere confermata la condanna a vent’anni. È stata questa la conclusione del pubblico ministero Beatrice Ronchi, della Direzione distrettuale antimafia di Bologna, nel processo d’appello, con rito abbreviato, contro l’ex presidente del consiglio comunale di Piacenza Giuseppe Caruso, arrestato nel giugno del 2019. A una conclusione analoga è arrivata parlando del fratello Albino, che in primo grado è stato condannato a 12 anni e 10 mesi. Sono entrambi considerati uomini del clan Grande Aracri, con base a Cutro, in provincia di Crotone, ma affari in Emilia. Di segno opposto le tesi dei difensori, che hanno sostenuto l’estraneità dei due imputati piacentini dall’associazione a delinquere di stampo mafioso.

Ricordata dal pubblico ministero la rete di legami e amicizie che Caruso aveva come funzionario dell’Agenzia delle Dogane e come politico. Dopo la pm, ha preso la parola l’avvocata Elena Vezzulli del Comune di Piacenza, parte civile nel processo. Ricordiamo che il giudice di primo grado ha condannato l’ex presidente del consiglio comunale – espressione di Fratelli d’Italia (partito dal quale venne espulso) – al pagamento di un risarcimento di un milione di euro in favore di Palazzo Mercanti per il danno d’immagine avuto dalla vicenda.

Di segno opposto la ricostruzione dell’avvocato Luca Cianferoni, difensore di Giuseppe Caruso. «Non c’è stato alcun legame organico con la ‘ndrangheta. Se guardiamo alla vicenda principale, quella del Riso Roncaia, vediamo una persona che ha sbagliato perché, assieme ai titolari della società, ne ha causato la bancarotta. È stata un’attività spregiudicata di condizionamento dei bilanci, ma non c’è stata alcuna estorsione. Né, tanto meno, il suo intervento è espressione della criminalità organizzata calabrese». Per questo ha chiesto di riqualificare l’accusa di associazione a delinquere in bancarotta fraudolenta.

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