L’ultima intervista: “Il giornale è la mia casa e chi lavora qui è la mia famiglia”
24 Gennaio 2025 10:17
Quando Donatella Ronconi era una bambina abitava nella galleria Venticinque Aprile di Cremona, il maggior edificio civile di carattere monumentale dopo quelli del Medioevo nella città del Torrazzo, tra i suoi 135 metri di portici, con cinque livelli di marmi diversi. In biografia solo una parentesi lontana da lì, di cui ha ricordi sfocati e protetti, in campagna, a Gabbioneta, sfollata, durante la guerra che l’ha vista venire alla luce nel freddo gennaio del ‘43. “Giocavo con la sabbia nello sfollamento, facevamo le formine”, minimizza. Della vita in città ricorda invece perfettamente il profumo della pila di giornali che ogni giorno il papà Enrico accumulava sulla sua scrivania. Il Corriere della Sera di sicuro, ma anche altri. “Di sicuro erano tanti”. Lui era direttore responsabile degli istituti ospedalieri di Cremona. Lei invece non sapeva ancora che sarebbe diventata presidente di un gruppo editoriale, editrice a Piacenza di un giornale arrivato a gennaio a 140 anni di storia, ma anche di un sito, di una televisione, di un’agenzia pubblicitaria, tra le poche donne (quasi unica) a ricoprire una carica così.
Presidente Donatella Ronconi, ha conosciuto altre donne editrici di giornali?
“Invitai qui la direttrice della Prealpina, Daniela Bramati. Ma altre in effetti non ne ho conosciute”.
Essere donna tra uomini al lavoro, tra officine dove si maneggiava il piombo delle lettere, notti di notizie, di adrenalina, di caos, non le è mai pesato?
“Per nulla. Non mi sono mai sentita non rispettata perché donna, anzi mi sono sempre sentita in qualche modo protetta, mai sola. Ho faticato molto più che altro con certi caratteri particolari, più sanguigni, ma non per l’essere uomo o donna. Se ci si odia, vedete, è finito tutto. Io ho provato a cercare sempre mediazione, armonia, perché credo serva solo pazienza a volte. Se uno la vede bianca e uno la vede rossa, perché non si può provare a vedere insieme un rosa shocking?”.
Dicono, a Bobbio, di aver voluto dare il premio “Piacentina dell’anno” a una imprenditrice coraggiosa. Lei se lo aspettava?
“No. Ma forse data l’età hanno pensato a un certo punto anche a me. Bisogna saper anche sorridere di sé, non è un male dire che ci si sente un po’ Matusalemme”.
Di sicuro gli anni al lavoro sono stati tanti. Come è entrata in contatto con il giornale?
“Ma sinceramente… Avevo 18 anni e conobbi alcuni piacentini che avevano iniziato a frequentare Cremona. Il Circolo della Caccia, il Circolo del Giardino… Così anche noi cremonesi iniziammo a nostra volta a frequentare Piacenza. Si ballava sotto la Galleria della Borsa. Poi in compagnia andavamo a Salsomaggiore. Ci sembrava un sogno vedere i ristoranti aperti fino a mezzanotte, con la piscina. Sembrava Milano. Marcello Prati era il capobanda di tutta questa gioventù. E già amministrava con inesauribile energia la Libertà, diretta da suo fratello Ernesto. Il suo ufficio era questo, dove siamo a parlare ora. Ci davamo appuntamento qui, per poi uscire tutti insieme”.
E com’era questo ufficio?
“Marcello era da una parte e dall’altra c’erano le telescriventi. Le notizie uscivano su rotoli di carta. I giornalisti arrivavano e le tagliavano. Ogni tanto qui però ci pioveva dentro”.
Chi era Marcello Prati per lei, oltre che suo marito?
“Una guida. Lo ringrazierò sempre, perché aveva la vera passione del giornale, ne conosceva bene la portata, l’importanza, la notizia fresca. E poi era sempre allegro, di compagnia. Su 24 ore ne viveva venti”.
Lei invece come ha imparato a tenere sempre il passo con i tempi?
“Oggi il tempo mi sembra lungo e corto allo stesso modo. Qui di certo si è sempre discusso tanto, a volte anche litigato, consapevoli che proprio dal sano confronto vengano fuori le idee migliori. Marcello ad esempio era un visionario, voleva esplodere. Ernesto era più tradizionalista. Ma Piacenza ha sempre fatto la differenza perché il giornale di questa terra nasceva da una famiglia”.
Quando lo ha capito?
“Forse quando la mamma di Marcello e Ernesto alle 23 mi chiese la prima volta di fare con lei i krapfen da portare ai linotipisti e a chi stava lavorando. Io le chiedevo “ma ce la facciamo?” e lei “sì, in un paio d’ore glieli portiamo caldi”. Era una attenzione, quella notturna, che aveva una mamma per una famiglia intera”.
Enrica, sua figlia, chiamata con il nome del nonno Enrico, è cresciuta in questa famiglia, fino purtroppo alla prematura scomparsa nell’agosto del 2015.
“Lei è stata brava. L’essere cresciuta tra persone che vivevano tra le notizie, tra la voglia di fare, le è stato di insegnamento. Le piaceva fin da bambina giocare con le letterine. Con il lavoro partì da Altrimedia, l’agenzia della pubblicità. Poi fu lei a credere fortemente nel web, nella tv. Prima di Telelibertà c’era stata soltanto la meteora di Trp. A tutti gli altri grandi cambiamenti del giornale e degli altri mezzi del gruppo Enrica era sempre tra i primi a crederci”
Oggi nel nostro mestiere in cosa si può e si deve credere?
“Nel fatto che il giornale sia la certificazione di una notizia. Magari l’abbiamo già letta, nella sua forma essenziale, su Internet o sui social, dove tutto è più morbido, modificabile, una sorta di interspazio tra la stampa e quel che accadrà. Ma il giornale ti lascerà sempre qualcosa in più. Fa fede”.
Dopo la scomparsa di Enrica, in tanti si sono fatti avanti credendo di poter acquisire quote, maggioranze. È così?
“C’è stato un assalto, diciamolo. Qualcuno si aspettava vendessimo tutto al Gruppo Espresso poi diventato Gedi o ancora ad altri gruppi. Io non l’ho mai neanche lontanamente pensato. Carlo Caracciolo tra l’altro aveva già un piede dentro. Ma si affezionò lui stesso ai nostri valori e un giorno mi disse: ‘Tanto ho capito che non la venderai mai’. Libertà non ha prezzo, è proprio vero. Anche per questo è stata creata la Fondazione Donatella Ronconi e Enrica Prati, pensata e realizzata con l’avvocato e vicepresidente Sandro Miglioli. Lo scopo è che siano i piacentini come collettività civile i futuri editori. Caracciolo aveva capito che non siamo una catena di montaggio. Io ho sempre pensato che non si dovesse mai restare con il paraocchi e lui vedeva amore fin nelle nostre cantine, che visitava incantato, perché contenevano ricordi, articoli, fotografie. Ci diede infatti ogni aiuto possibile, un credito praticamente illimitato, all’asta in cui riuscimmo a ottenere la piena proprietà del gruppo”.
Ha citato la famiglia, lo stare in squadra. Quanto conta ciascuno?
“Tutto. Anche chi ha ruoli apparentemente secondari deve poter dire la sua e contribuire alla evoluzione. Ci si ascolta e mettendo insieme tutte le visioni si arriva ad avere una visione unica. Il giornale non è già fatto al mattino. Il menabò è campo aperto fino all’ultimo. Bisogna avere mille occhi, soprattutto in un mondo che sembra in ebollizione purtroppo, un groviglio. Penso alla vicina guerra ad esempio, con dolore”.
Lei stessa ha dovuto affrontare dolori troppo grandi, nella vita.
“Prove tremende. Ma come tutte le cose, si devono superare, con forza e ragione. Il giornale sicuramente è la mia casa. E la gente che lavora qui è la mia famiglia. Ci vediamo vivere, gli uni gli altri. Io non potrei mai trasferirmi altrove. Un giornale è anche comunità. Io qui noto che se un collega ha un problema e deve uscire dalla redazione, gli altri sono pronti a fare la sua parte, senza neppure tanto pensarci”.
Signora Ronconi, permetta un’ultima domanda un po’ invadente. Lei a Piacenza è conosciuta e stimata per il suo ruolo di editrice. Da molti è anche considerata una persona affascinante. E lei come guarda a se stessa?
“Mia mamma Elsa era molto bella. Aveva capelli nerissimi, li raccoglieva in uno chignon. Anche mia sorella maggiore, Maria Ludovica, era di una bellezza rara. Camminava sui letti con un buon portamento e una borsetta sottobraccio, fin da piccola. E io? Guardi, io forse come tutti i figli minori mi sono sentita il brutto anatroccolo… (e qui sorride ndr), anche se credo di essere sempre stata come tante donne “multipensing”, una parola che mi viene così per dire la capacità e la necessità di occuparmi di varie cose insieme. Anche mia sorella poi è mancata, non ha avuto figli.
E sì, sono sola al mondo. Ma ho Libertà. E Libertà ha un’anima.
È la nostra anima”.’
Intervista di Elisa Malacalza
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