Fitoestrazione, quando le piante immagazzinano metalli pesanti

25 Agosto 2021 06:00

In breve:

  • Ci sono piante in grado di assorbire e immagazzinare i metalli pesanti presenti nel terreno
  • La fitoestrazione potrebbe aprire a metodi meno invasivi di recupero delle materie prime
  • È una proprietà conosciuta sin dall’inizio degli anni ’80 ma l’assenza di investimenti non le ha permesso di uscire dalla fase embrionale

Gli scienziati di tutto il mondo sono alla ricerca delle piante “iperaccumulatrici”, in grado di assorbire grandi quantità di metalli pesanti dal terreno. Le loro possibili applicazioni sarebbero innumerevoli, a partire da una nuova metodologia meno invasiva per estrarre la materia prima sino a processi di recupero di terreni contaminati. Nonostante vi siano ricerche ed evidenze sin dall’inizio degli anni ’80, però, questa tecnologia fatica a spiccare il volo e si trova ancora in fase embrionale.

Iperaccumulatrici, piante affamate di metalli pesanti

Ormai da decenni gli scienziati di tutto il mondo sono alla ricerca di particolari specie di piante, definite “iperaccumulatrici”. Si tratta di esemplari in grado di accumulare al proprio interno una grande quantità di metalli pesanti in maniera del tutto spontanea e naturale, senza risentirne. Queste iperaccumulatrici presenterebbero infatti quantità di metalli pesanti anche cento volte superiori a quelle delle piante “comuni”. Una caratteristica particolarmente rara e che infatti sta creando non pochi rompicapi ai biologi: su oltre 320mila specie di piante riconosciute solo 700 avrebbero questo “superpotere”. Due terzi di queste inoltre digerirebbero soltanto il nichel e non il resto dei metalli comunque presenti nel terreno, altro elemento che pone ulteriori ostacoli agli studi.

Usare queste piante per ripulire terreni inquinati e compromessi

Queste piante aprono le porte a nuove tecnologie come il fitorimedio o, più semplicemente, la fitoestrazione. Con il fitorimedio si sfruttano le capacità naturali di queste piante di estrarre i metalli pesanti dal suolo senza l’aggiunta di sostanze chimiche o necessità di spostare il suolo “contaminato”, con conseguente possibile riqualificazione ambientale. Con la fitostrazione invece ci si limita all’estrazione di metalli che si accumulano così nelle radici e nelle foglie. Quando invece di parla di “phytomining”, in inglese, ci si riferisce invece al recupero dei metalli contenuti all’interno delle piante iperaccumulatrici una volta che quest’ultime dovessero essere ridotte in cenere: il metallo, infatti, resistendo alla combustione, non si dissolve e può essere ancora recuperato.

Non servono specie esotiche, alcune sono presenti anche in Italia

Tra le specie utilizzate e sperimentate ci sono il girasole, il granoturnco, il pioppo, la felce ma, soprattutto, l’alisso. L’alyssum murale infatti, secondo alcuni studi, sarebbe in grado di accumulare fino a  16,9 grammi di nichel per ogni chilogrammo (secco). A seguito di un ulteriore processo sarebbe quindi possibile recuperare fino all’80% di questo metallo.

Un’idea che risale al 1983 ma ancora poco applicata

Il pioniere della fitoestrazione si chiama Rufus Chaney, un agronomo del ministero dell’Agricoltura statunitense, che nel 1983 pubblicò due studi relativi alla capacità delle piante di assorbire le sostanze inorganiche presenti nel terreno senza soffrire effetti collaterali. Una serie di altri paper venne pubblicata negli anni successivi e fu anche costituito un accordo cooperativo di ricerca proprio per esplorare le potenzialità di queste caratteristiche, tentando anche di selezionare e far riprodurre una serie di piante in grado di compiere questo processo. Rufus Chaney nel 2017 scrisse: “Questi metodi sono decisamente poco costosi rispetto alla rimozione del suolo, e possiamo solo sperare che le industrie adopererà le tecnologie di fitostabilizzazione in un grande numero di luoghi inquinati attorno al mondo […] è il momento di cominciare ad adottare queste tecnologie”.

Gli studi dell’Università australiana di Queensland

Tra i luminari della pratica della fitoestrazione si annovera Antony van der Ent, ricercatore dell’Università australiana di Queenland. Secondo i suoi studi è possibile dimostrare che da un ettaro di campo coltivato con specie di piante iperaccumulatrici sia possibile ricavare ogni anno tra i 150 e i 250 chilogrammi di nichel. Stando ai prezzi di inizio agosto “un coltivatore potrebbe guadagnare anche 3.800 dollari per acro vendendo il nichel”. Lo stesso ateneo riporta nel proprio sito come vi siano attualmente circa 450 specie documentate di piante iperaccumulatrici di nichel in tutto il mondo. La maggior parte di queste si troverebbe a Cuba (130), così come nell’Europa del sud e in Asia minore (80-90) e in Malesia (24). Tra le specie individuate c’è la Pycnandra acuminata, albero che cresce nell’isola del Pacifico di Nuova caledonia, alta in media 20 metri di altezza e caratterizzata da un peculiare colore blu e verde: quest’ultima è costituita per il 25 % da nichel assorbito dal terreno.

“Il professor van der Ent spiega i suoi esperimenti”

La Commissione europea ha finanziato un progetto da quasi 3 milioni di euro

Proprio nelle tecnologie di fitoestrazione la Commissione europea ha finanziato un progetto del valore di 2,7 milioni di euro che ha avuto luogo tra luglio 2016 e giugno 2021, dal nome “Life-Agromine”. L’obiettivo? Dimostrare che sarebbe possibile utilizzare su larga scala le tecnologie di estrazione del metallo dalle piante in modo tale da rendere i processi meno invasivi nei confronti dell’ambiente.

La professoressa che cerca iperaccumulatori nelle foreste indonesiane

Nel 2004 la professoressa e biologa Aiyen Tjoa stava visitando Sorowako, una piccola città nell’isola di Sulawesi, in Indonesia. Un luogo importante per i suoi studi in quanto sede di una delle aree di estrazione del nichel più ricche del mondo, tanto da costituire il 5% dell’offerta mondiale del metallo. Ebbene, camminando in quella che secoli fa era una delle isole dalla più estesa biodiversità del pianeta Terra, la professoressa Tjoa era alla ricerca di in una serie di piante sopravvissute all’invasivo passaggio dell’industria estrattiva. Piante alquanto particolari, capaci di crescere e svilupparsi in un ambiente ricco di nichel, un metallo che per la flora può costituire un veleno spietato, se presente in quantità troppo elevate nel terreno. Dopo una attenta analisi, si scoprì che quelle stesse piante si erano abituate all’ambiente circostante modificando le loro “abitudini nutritive”, risucchiando sì il metallo dal terreno ma conservandolo in speciali vacuoli. Come se avessero compreso ciò con cui avevano a che fare e si fossero adattate, isolando il nutrimento “velenoso” da quello necessario al loro sostentamento. La biologa c’è riuscita? Sì e no, nelle sue ricerche si è infatti imbattuta in specie capaci di immagazzinare tra i 1.000 e i 5.000 microgrammi di nichel per grammo di foglia essiccata. Troppo poco a suo avviso, dato che per rendere economicamente sostenibile una coltivazione massiva di queste piante sarebbe stata necessaria una capacità pari almeno a 10.000 microgrammi per grammo di foglia. La mancanza di interesse e investimenti nella tecnologia rischia di essere fatale in quanto tra il 1990 e il 2018 l’isola di Sulawesi ha già perso circa un quinto delle sue foreste, con annessa perdita di possibili specie iperaccumulatrici che non si è fatto in tempo ad individuare e studiare.

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