Camillo e Adriano Olivetti, storia di due italiani visionari

Redazione Online
|4 anni fa
Camillo e Adriano Olivetti, storia di due italiani visionari
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In occasione dell’anniversario della nascita di Camillo Olivetti, avvenuta il 13 agosto 1868, Green Future propone la storia di Camillo e Adriano Olivetti. Il fondatore della Olivetti e colui che l’ha resa grande. Il mai domo pioniere dalla vulcanica mente e il visionario imprenditore che viveva nel futuro. Ma, soprattutto, un padre e un figlio, due italiani che da Ivrea hanno dato il via ad una realtà unica al mondo, fatta di cuore e innovazione, attraversando alcuni dei decenni più bui della storia contemporanea.
Una doverosa premessa
Ove non riportato per le informazioni contenute nell’articolo si è fatto riferimento ai seguenti testi:
Camillo e Adriano Olivetti, storia di due italiani visionari
Camillo, come il Conte di Cavour
Samuel David Camillo. Tre nomi, non uno di meno. Quando il padre Salvador Benedetto e la madre Elvira Sacerdoti lo comunicano al funzionario del municipio di Ivrea è presente anche il rabbi della comunità israelitica della città. Sì, perché la famiglia di Samuel David Camillo è ebrea. Lo è da centinaia di anni, sin da quando gli antenati del padre si erano spostati dalla Spagna ad Ivrea, in Italia, sul finire del XVII secolo. Samuel David Camillo non può saperlo – in quel presumibilmente caldo 13 agosto del 1868 è ancora un neonato – eppure la sua origine e il suo credo religioso costituiranno uno dei crocevia della sua vita una volta sbarcati nel Novecento. È ancora presto per pensarci, figurarsi per parlarne. Oltre ad essere ebrea, quella di Samuel David Camillo è una famiglia benestante, appartenente alla borghesia di Ivrea. Vive sulle colline di Monte Navale, in una villa che pochi in quell’Italia potevano vantare. Dalle finestre e dal giardino ricco di fiori si vedono le Prealpi. Il suo terzo nome, Camillo, gli venne assegnato dal padre in onore di Camillo Benso. Proprio quel Camillo Benso, conte di Cavour, che fu tra i principali artefici dell’unità d’Italia solo una decina di anni prima. Camillo è anche il nome con cui il bambino deciderà di firmarsi una volta cresciuto: Camillo Olivetti. Non impiega molto a maturare. Suo padre viene a mancare quando lui ha un anno. A quell’età è complicato persino immagazzinare nitidi ricordi. La vita e il destino gli chiedono di mettersi in piedi in fretta, e lo fa. I racconti parlano di un bambino irrequieto e solitario. La madre Elvira è chiamata a contenerlo, tentando di mettere ordine e canalizzare il fiume in piena che si ritrova nella testa. Ma pare sia una impresa impossibile: “La mia povera madre, non credo abbia mai capito qualcosa”, avrebbe scritto lo stesso Camillo (Lettere americane, Fondazione Adriano Olivetti, Roma 1999, p.254). Buona parte dell’infanzia la passerà in collegio, luogo che non ama e che vorrà risparmiare a tutti i costi ai propri figli. Una strada però la trova. Disegna, progetta, inventa. Già allora nella sua testa prendono forma grandi macchinari industriali, frutto della fantasia ma anche a loro modo premonitori. Non riesce a stare fermo. Bastano un paio di sguardi per capire che il bisogno di creare qualcosa di nuovo dovrà per forza emergere e palesarsi anche una volta cresciuto. E così sarà.
Adriano, figlio del secolo
È il 1901. Alba del nuovo secolo. Camillo Olivetti e la moglie Luigia Revel stanno progettando la loro vita insieme. L’11 aprile è nato Adriano, il loro secondogenito (ma primo maschio, elemento da non sottovalutare per la borghesia imprenditoriale dell’epoca). L’anno precedente era venuta al mondo Elena. Avranno sei figli. Una famiglia numerosa (per gli standard attuali), a differenza di quella di Camillo e invece similarmente a quella di Luigia. Lei, timidissima figlia del pastore valdese di Ivrea Giovanni Daniele Revel, ha tredici fratelli. Donna riservata dotata di grande cultura, sarà lei ad impartire ai propri figli l’educazione scolastica e a trasmettere loro la conoscenza, anzi padronanza, della lingua inglese. La famiglia è benestante, tanto da potersi permettere numerosi album di fotografie giunte sino ai giorni nostri. Adriano, essendo il secondo dei sei figli, compare in parecchie istantanee. Sempre vestito di tutto punto, con quella espressione austera che i fotografi dell’epoca richiedevano, mostra impettito la fisionomia dai tratti curvilinei accentuati che lo accompagnerà per tutta la vita. Cresce come i suoi fratelli all’interno del convento di San Bernardino di Ivrea, che il padre Camillo acquista nel 1908. Il locus amoenus che voleva per la propria famiglia, antitesi radicale del collegio in cui è cresciuto. Ampi spazi, tanto verde (boschi e vigne comprese) e sempre qualcuno con cui parlare, che si trattasse dei fratelli, dei genitori o di una delle balie che soggiornavano all’interno. Adriano cresce all’interno di questo nido e riceve una educazione all’insegna della discontinuità con la tradizione di entrambi i rami della famiglia. Uno stampo forse più figlio del Novecento che non dell’Ottocento visto dai genitori. Camillo e Luigia lo avevano deciso fin dall’inizio: niente battesimo, né circoncisione, né insegnamenti religiosi. Della didattica dei figli, Adriano compreso, si sarebbero occupati la natura e Luigia stessa. Oltre allo studio interamente privatistico e “famigliare” che lo porterà dal 1909 in poi a passare gli esami ogni anno all’istituto tecnico Sommelier di Torino, Adriano passa molto tempo a giocare all’aperto. Matura una sensibilità per la natura e l’ambiente che lo circonda che si porterà dietro anche nella vita imprenditoriale. Valerio Ochetto, nella sua biografia dell’imprenditore, definisce Adriano come un bambino dalla “grande emotività”. In tenera età piange spesso, ma di certo non per le punizioni corporali: in famiglia non erano contemplate. Certo, è un bambino privilegiato all’interno della società italiana di inizio XX secolo, eppure Camillo e Luigia gli insegnano fin da subito l’umiltà. Essere empatico con chi non appartiene alla sua stessa classe sociale. Non abusare della sua posizione. “La nostra è una vita molto semplice, senza stravaganze o lussi”, scrive Miss Ruth Philipson, ragazza del Dorset ospitata al convento per potenziare l’inglese dei bambini.
Camillo, 10 anni – A lezione dai pionieri
Adriano, 13 anni – Il battesimo del fuoco
“Mio padre mi mandò a lavorare in fabbrica. Imparai così ben presto a conoscere e odiare il lavoro in serie: una tortura per lo spirito che stava imprigionato per delle ore che non finivano mai, nel nero e nel buio di una vecchia officina… Per molti anni non rimisi piede nella fabbrica”.
Una esperienza traumatica dalla quale per tutta la vita cercherà di fuggire, costruendo nuove e rivoluzionarie modalità di organizzazione della forza lavoro, e che cercherà di risparmiare per quanto possibile ai propri lavoratori. Negli anni successivi Adriano diventa un adolescente sensibile e dallo spiccato senso del dovere, fortemente attratto dalle discipline umanistiche. Legge tutto Rudolf Steiner e con suo fratello Massimo “La fisiologia dell’amore” di Paolo Mantegazza. Non riescono a concludere la lettura: la madre li scopre e getta il libro nel fuoco. Di lì a poco, comunque, le preoccupazioni sarebbero state altre. Nella primavera del 1918, appena compiuti diciassette anni, Adriano Olivetti scrive al padre:
“Ritengo di fare più il mio dovere come soldato che come operaio, perché è certo che di operai come me ne puoi trovare quanti ne vuoi, mentre credo che purtroppo di soldati veramente volenterosi non se ne trovano in egual numero”.
Non chiede consiglio e non cerca approvazione. Ha già deciso. Si arruola nel quarto reggimento Alpini e finisce a Saint Vincent. Non vedrà mai il fronte, anche perché nel novembre dello stesso anno viene firmato l’Armistizio di Compiègne che pone fine alla Prima guerra mondiale e lui non ha ancora completato la formazione iniziale. “La divisa militare gli cadeva male sulle spalle, che erano grasse e tonde; e non ho mai visto una persona, in panni grigio-verdi e con pistola alla cintola, più goffa e meno marziale di lui”, scriverà Natalia Ginzburg nella sua autobiografia “Lessico famigliare”. Lei Adriano lo conosceva bene, sin dall’infanzia. Anche perché il suo nome di battesimo riporta il cognome Levi, famiglia ebrea amica degli Olivetti. Adriano, tra l’altro, ha già nel cuore sua sorella Paola (che finirà per sposare). Durante il periodo in divisa Olivetti incontra personaggi come Gaetano Salvemini e Piero Gobetti, imboccando la via già tracciata dal padre: il socialismo. Camillo lo iscrive al Politecnico di Torino, che concluderà nel 1924 laureandosi in ingegneria chimica. Finisce a lavorare in fabbrica percependo la paga di un operaio. Avrebbe voluto fare il giornalista, ma il clima che si respira in Italia gli fa cambiare idea. Mussolini ha preso il potere da due anni e in quella estate il deputato socialista Giacomo Matteotti viene ucciso.
“Tratto dal documentario di Pasquale Prunas e Roberto Rossellini, Benito Mussolini. Dalla marcia alla catastrofe, 1962, Una ricostruzione dei mesi che precedettero e seguirono il rapimento e l’assassinio di Giacomo Matteotti”
Camillo, 25 anni – I contadini elettricisti
“Secondo me non vi è quella divisione netta fra lavoro manuale e lavoro intellettuale che qualcuno ama credere. Tutti i lavori, se fatti bene, richiedono più o meno uno sforzo dell’intelligenza, ed il lavoro del fucinatore più di molti altri, non esclusi alcuni di quelli che si chiamano intellettuali”.
Adriano, 24 anni – Il viaggio negli States e la fuga di Turati
“Mi ero fatto l’illusione prima di venire in questo paese, un po’ per l’impressione di ottimismo di Papà, un po’ attraverso alcune manifestazioni esteriori, che nell’insieme l’America fosse un paese civile, mentre è solamente ricco. Politica infantile, con sistemi di corruzione divenuti metodo costante di governo”
“Sandro Pertini racconta come venne organizzata la fuga di Filippo Turati”
Camillo, 40 anni – La prima macchina da scrivere
Camillo non ha fretta. Non è alla CGS, dove bisogna soddisfare ordini sulla base di un catalogo prestabilito. Qui bisogna inventare, ma parte da una buona base: da anni è appassionato del settore. Studia e sviscera tutti gli angoli bui della produzione dei futuri concorrenti. Progetta da sé i meccanismi del prodotto. Preferisce dare tempo ai suoi dipendenti, stimolati nella ricerca e nello sviluppo piuttosto che limitati a mansioni meccaniche e in serie. Però alla fine arriva. Nell’agosto del 1909 esce il prototipo della Olivetti M1, la sua prima macchina da scrivere. L’industria italiana mormora. Nel 1911, all’Esposizione internazionale delle industrie e del lavoro di Torino, la Olivetti presenta ufficialmente il prodotto. La macchina è nera, sobria e allo stesso tempo elegante. Poco dopo l’azienda si aggiudica un appalto della Regia Marina per cento esemplari: vengono preferite alle Remington per la “docile battitura dei tasti”. Arrivano ordini anche dal Ministero dell’Interno e dalle Poste Italiane. Il giro d’affari si amplia. Gli servono capitali ma pur di non affidarsi alle banche vende alcuni terreni di famiglia e gli appartamenti ereditati dalla madre nel centro di Ivrea. Gli dà una mano anche la rete di conoscenze degli esponenti della finanza e dell’imprenditoria ebraica locale. Nel 1913 ha centoventi operai nel libro paga, raggiunge i mille esemplari ed ha creato una rete di filiali in diverse città italiane (Milano, Roma, Napoli e Genova tra le altre). Niente e nessuno sembra poter interrompere il decollo della Olivetti. Sembra, perché poi il 28 giugno 1914 a Sarajevo Gavrilo Princip esplode diversi colpi di pistola verso l’erede al trono d’Austria-Ungheria Francesco Ferdinando d’Asburgo. È casus belli. Tutte le tensioni accumulatesi nel continente nei decenni precedenti vengono rilasciate come un terremoto. È Guerra mondiale, e ancora non si sa se l’Italia parteciperà o meno.
Adriano, 31 anni – La tessera fascista di un antifascista
“La dichiarazione di guerra restaurata dall’Istituto Luce-Cinecittà in collaborazione con il Lazio Film Production Lab”
Camillo, 62 anni – Una fabbrica di operai, per gli operai
Adriano, 44 anni – Ritorno ad Ivrea e scoperta dell’America
Ma ora è tornato nella sua Ivrea e la guerra è finalmente finita. Ritrova una città quasi intatta. Risparmiata dai bombardamenti in quanto periferica rispetto ai grandi centri nevralgici del Nord. Anche la fabbrica è ancora lì, anche se c’era mancato poco: si narra che nel gennaio del 1945 il comando militare tedesco di Vercelli avesse ordinato di minare la fabbrica – fino ad allora di importanza strategica – per distruggerla. Furono fermati da una cospicua somma monetaria consegnata ad un alto ufficiale tedesco da Giuseppe Pero, Giovanni Enriques e Gino Martinoli (i tre a cui era stata affidata la guida dell’azienda nel periodo di assenza di Adriano). Dopo il ritorno di Adriano, l’Olivetti non perde tempo. In quell’anno esce la Divisumma 14, la prima calcolatrice scrivente al mondo capace di eseguire tutte e quattro le operazioni. Con il sostegno del governo e degli aiuti internazionali post-bellici l’azienda torna a volare. Tra il 1947 e il 1951 il capitale sociale decuplica. L’azienda non torna a produrre vecchi modelli ma li riprogetta da zero. Arrivano la Lexikon 80 e nel 1952 la Lettera 22, macchina da scrivere che fa da testa d’ariete per il mercato americano. La Olivetti sta conquistando il mondo intero, e la Remington forse per la prima volta comincia a tremare.
“Archivio Nazionale del Cinema d’Impresa di Giorgio Ferroni, 1950. Panoramica su Ivrea e gli stabilimenti Olivetti tra la fine degli anni quaranta e gli inizi degli anni cinquanta”
Camillo, 75 anni – La fuga e l’epilogo
Il 4 dicembre 1943 Camillo lascia questo mondo.
Quando ad Ivrea si viene a sapere che l’ingegnere Olivetti è deceduto, una marea di operai, tecnici e conoscenti parte alla volta di Biella. Chi in bici, chi via carro, chi persino a piedi. Volevano esserci, nonostante tutti i rischi di quei giorni. È il tributo di quella che è sempre stata la sua gente. Che ha portato il proprio rispetto a chi, il rispetto, non ha mai mancato di portarlo.
Adriano, 59 anni – L’ultimo treno di un disegnatore di rotaie
Il 27 febbraio 1960 Adriano Olivetti si trova sul treno che lo sta portando a Losanna. Ce lo si può immaginare con lo sguardo fuori dal finestrino. Solo due giorni prima il consiglio di amministrazione della Olivetti ha dato il via libera alla acquisizione della Underwood. La stessa azienda che durante il suo primo viaggio negli Stati Uniti, negli anni ’20, gli aveva chiuso le porte in faccia impedendogli di visitare gli stabilimenti. Ora sarebbe stata sua e dell’azienda di Ivrea, presente in tutto il mondo con circa 36mila dipendenti totali. L’Olivetti, una multinazionale celebre per la qualità dei propri prodotti e per l’estetica che li accompagna. Adriano, appassionato di architettura, conosce l’importanza di curare la forma oltre che la sostanza. Gli showroom della Olivetti sono ormai delle mostre di arte contemporanea prestate al marketing. Ce n’è uno in piazza San Marco a Venezia, con marmi, vetri di Murano e mosaici. Anche a Roma, Milano, Barcellona e Parigi (con elementi tubolari che scendono dal soffitto per ricongiungersi alla schiera di macchine da scrivere). Per non parlare dello store che amava di più, quello di New York, tra la Fifth avenue e la 48esima strada. Al suo interno si poteva trovare marmo rosa e verde, lampade in vetro di Murano e un’opera murale di Costantino Nivola in “sand casting” (che alla chiusura dello store nel 1970 verrà trasferita nello Science Center dell’Università di Harvard). Fuori dallo showroom è sistemata una Studio 44 colorata, macchina da scrivere commercializzata nel 1952. Si calcola che nei primi dieci mesi in cui fu esposta, nel 1954, circa 50mila persone si siano fermate a digitare qualche parola. Il Time lo definisce “negozio più bello della Fifth Avenue”. L’Olivetti è a tutti gli effetti una icona dello stile italiano. Ad Ivrea, intanto, già da tre anni i magazzini di produzione sono controllati dagli Elea. Prototipi di elaboratori elettronici sviluppati dal gruppo di lavoro guidato dall’ingegnere Mario Tchou in collaborazione con l’Università di Pisa. Da un anno l’Olivetti poteva vantarsi di aver commercializzato il primo elaboratore commerciale a transistor al mondo, l’Elea 9003, acquistato fin da subito anche dalla banca Monte dei paschi di Siena. L’inizio dell’epoca d’oro dell’azienda, alla quale Adriano non potrà mai assistere con i propri occhi. Perché Adriano Olivetti a Losanna non ci arriverà mai.
Se lo porta via una emorragia cerebrale poco dopo che il suo vagone ha superato il confine svizzero, ad Aigia. Una morte ancora oggi avvolta nel mistero. Da una parte chi crede nella “morte naturale”, dall’altra chi sostiene si sia trattato di un omicidio (così come quello dell’ingegner Tchou l’anno dopo, morto in un incidente stradale), ad opera di qualcuno che non condivideva il posizionamento geopolitico della Olivetti, che si stava aprendo al mercato “rosso” di Unione sovietica e Cina portando con sé l’americana Underwood, oltre all’avanzamento tecnologico dell’azienda. Certamente si è trattato della fine della prima era dell’Olivetti. Quella pionieristica e affascinante, che ha superato due guerre mondiali e permesso ad Ivrea di competere (quasi) per diversi decenni ad armi pari con aziende ben più strutturate e finanziate come la IBM. Una storia tutta italiana, fatta di ingegno, tenacia, umiltà e capacità di fare sempre di necessità virtù. La storia di Camillo e Adriano Olivetti.
“Una notte nel Canavese: così perfetta nel ripetersi da stingere nelle sue mille forme passate ed annullarvisi, e così perfetta nel suo essere presente da incombere come una apparizione fatta di mille apparizioni ognuna tanto incantevole quanto destinata a esserci e basta: puro disegno della necessità del mondo”
Pier Paolo Pasolini – Petrolio, Appunto 10 Quater