Dall’Italia alla Francia la classe non è acqua, Maccione l’arlecchino festeggia 90 anni
Il comico da esportazione, partito con gli sketch dei Brutos, è divenuto un’autentica star Oltralpe
Redazione Online
|1 settimana fa

Maccione nel film “Dov’è finita la 7ª compagnia?”
«Un attore che fa teatro per la prima volta e ha questo istinto del pubblico, della scena… Siamo rimasti impressionati, è formidabile!». Correva l’anno 1988 e Jean-Pierre Cassel parlava ai microfoni di Antenne 2 di Aldo Maccione, il suo complice sul palco nella commedia “Avanti!” di Samuel Taylor.
«La prima volta», si capisce, nel teatro di prosa. Perché il torinese, che proprio giovedì 27 novembre compie 90 anni, aveva già alle spalle una carriera lunga tre decenni, cominciata nei locali all’ombra della Mole.
Nel 1959, l’impresario Aldo Zanfrognini, novello dottor Frankenstein, aveva assemblato cinque giovani promesse -Maccione, Ettore Bruno, Giacomo Guerrini, Elio Piatti, Gianni Zullo- per insufflare vita a un mostro delizioso chiamato “I brutos”. Alla base, il contrasto tra le canzoni romantiche del bello Guerrini e le smorfie e i cori (musicalmente perfetti, tematicamente esilaranti) dei colleghi, che abbruttivano il loro aspetto con abiti improbabili e tagli di capelli alla Karloff.
Il quintetto attingeva a piene mani dallo spirito della commedia dell’arte, capace di varcare qualsiasi frontiera, e il successo fu immediato sia in Italia che all’estero. Dalle tavole del teatro Alcione, “I brutos” fecero, e non è un modo di dire, il giro del mondo, compreso un tour a Broadway e un’ormai storica ospitata all’Ed Sullivan Show.
Mille tappe, una fondamentale nella vita di Aldo: la Francia. Il ponte tra culla e destino non era poi così lungo. Le serate all’Olympia di Parigi, nel boulevard des Capucines, vicino al Grand Café dove i Lumière avevano allestito il primo spettacolo pubblico del cinematografo, furono un trionfo professionale -incantarono Charlie Chaplin e Jacques Tati- e consentirono a Maccione di tessere incontri decisivi, in particolare, quelli con i registi Philippe Clair e Claude Lelouch.
La popolarità del gruppo continuò a salire nei primi anni ’60: arrivarono i Caroselli e i film musicali, accanto ad Adriano Celentano e persino da protagonisti, ma anche gli inevitabili contrasti artistici e alcuni cambiamenti nella formazione originale. Aldo lasciò “I brutos” nel 1966 e, per un lustro, percorse la stessa via del successo con il trio “Los tontos”, mentre il suo amore per il cinema si allargava a macchia d’olio.
A porgergli la mano per il salto decisivo, l’amico Lelouch: dopo averlo diretto in alcuni antenati degli odierni videoclip, destinati al celeberrimo juke-box Scopitone, lo fece esordire in solitaria ne “La canaglia” (1970), accanto a Jean-Louis Trintignant, e gli regalò “L’avventura è l’avventura” (1972), ovvero le peripezie di cinque ladri della vecchia scuola reinventatisi sequestratori di celebrità. Un debutto alla grande: primo ciak, replica a Lino Ventura. Il regista ricorda ancora lo spavento di Aldo! Il risultato, però, fu eccezionale: un’alchimia perfetta tra i protagonisti davanti e dietro la macchina da presa, un titolo di culto della commedia francese.
Questo ambiente privilegiato segnò anche la consacrazione filmica della sua camminata. Molti hanno voluto rivendicare la paternità della “démarche” de Aldo la classe, ma essa è puro genio di Maccione e nacque, per di più, molto prima di quel giorno sulle spiagge di Antigua: «Si tratta di una parodia della classe all’italiana che facevo già a scuola per divertire i compagni, è nata dentro di me, nessuno mi ha mai ordinato di farla, e poi l’ho recuperata all’Olympia, lavorando con Sacha Distel».
Da allora, vent’anni di odissee comiche sul grande schermo, a cavallo tra i due Paesi. In Italia, lavorò con alcuni dei nomi più popolari del periodo, come Umberto Lenzi, i fratelli De Martino, Luciano Salce o Enzo G. Castellari, senza disdegnare perle misconosciute come “Il piatto piange” (Paolo Nuzzi, 1974), trasposizione del romanzo d’esordio di Piero Chiara che ripercorre, con spirito amarcordiano e al ritmo di un Maccione superbo, la vita di provincia durante il fascismo.
Indimenticabile anche il sodalizio con Renato Pozzetto, che raggiunse lo zenit in “Sono fotogenico” (Dino Risi, 1980), racconto dalla lucidità disarmante sul crollo di un cinema imbastardito, prono all’invasione culturale americana, nel quale il suo avvocato Pedretti, rappresentante di attori rozzo e cialtrone, diventa -il termine è ingeneroso- antologico.
Nel frattempo, la stella splendeva ancor di più nella patria d’adozione. Maccione perfezionò il profilo del seduttore italiano pasticcione e irresistibile, collezionando ruoli su misura che fecero le delizie del pubblico francese, dal soldato Tassin di “Dov’è finita la 7ª compagnia?” (Robert Lamoreux, 1973) all’assistente cinematografico Sergio Campanese - che quasi fece morire dal ridere Jean-Paul Belmondo- de “L’animale” (Claude Zidi, 1977), passando per la sinergia con Pierre Richard negli incantevoli “Sono timido, ma lui mi cura” (1978) e “Non sono io, è lui” (1980).
Con l’arrivo degli anni ’80, Aldo s’incoronò definitivamente re della commedia popolare d’oltralpe, grazie a una dozzina di titoli che fecero saltare in aria il botteghino, soprattutto a braccetto con il ritrovato Clair: basti pensare che “Plus beau que moi, tu meurs” (1982), con l’attore nel doppio ruolo dei fratelli gemelli Aldo, seduttore incallito incappato in guai con la legge, e don Marco, prete, sfiorò i 3 milioni e mezzo di spettatori.
Al tramonto del decennio, però, gli usi e i costumi cinematografici cambiarono volto. Aldo di certo non si fermò: lavorò con Bigas Luna, Carlo Verdone e Aldo, Giovanni e Giacomo e cumulò diverse esperienze televisive, tra cui la nota miniserie “Aldo tous risques” (1992), e teatrali. Ma i ruoli si diradarono sempre più fino a interrompersi negli anni ’10 del nuovo secolo.
Allora il nostro Arlecchino, quello che, nonostante i perenni nasi storti del milieu intellettuale di celluloide, aveva disegnato l’intera geografia sentimentale della commedia francese (e non), si tolse la maschera, fece un inchino al pubblico e svanì dietro un magnifico sipario: il suo rifugio a Saint-Paul-de-Vence, nell’entroterra della Costa Azzurra. Ormai la leggenda era scritta. «Ce n’est pas facile d’avoir la classe!», scherzava spesso. Perché la classe, appunto, non è acqua: è Aldo Maccione.
di Yolanda Fuertes García
Leggi anche

