"A Fiumicino ho ucciso" non è solo un racconto, ma un documento sonoro di verità
Il primo podcast della giornalista Raffaella Fanelli della serie Storie Nere su Liberta.it
Claudia Labati
|5 ore fa

La copertina della serie di podcast Storie Nere di Raffaella Fanelli sul sito Liberta.it
C’è un momento, nell’ascolto di “A Fiumicino ho ucciso”, in cui la voce registrata di Khaled Ibrahim Mahmoud si ferma. Un silenzio che pesa come piombo, carico di tutto ciò che non può essere detto. È in quegli spazi vuoti che Raffaella Fanelli costruisce il suo podcast, una prima puntata che è molto più di un racconto: è un documento sonoro, quasi un reperto archeologico di una verità mai completamente emersa. La struttura è volutamente incalzante.
Fanelli non ci concede respiro, fa sì che, sin da subito, l’immersione nei fatti sia immediata. Apre con l’atmosfera sospesa del 27 dicembre 1985 - «un venerdì limpido e gelido» - per poi catapultarci immediatamente dentro le parole di chi quella strage l’ha fatta. Non c’è gradualità narrativa, non ci sono premesse rassicuranti. È un approccio brutale quanto necessario: siamo nella mente di un terrorista diciottenne, e lì dobbiamo restare.
Fanelli non ci concede respiro, fa sì che, sin da subito, l’immersione nei fatti sia immediata. Apre con l’atmosfera sospesa del 27 dicembre 1985 - «un venerdì limpido e gelido» - per poi catapultarci immediatamente dentro le parole di chi quella strage l’ha fatta. Non c’è gradualità narrativa, non ci sono premesse rassicuranti. È un approccio brutale quanto necessario: siamo nella mente di un terrorista diciottenne, e lì dobbiamo restare.

Il podcast alterna tre livelli sonori che si intrecciano come fili di una matassa impossibile da sbrogliare. C’è la voce narrante della giornalista, calibrata e fredda, che ci guida attraverso i fatti. Ci sono le testimonianze d’archivio - Sandra Milo che parla di un uomo in borghese che spara alla nuca - frammenti di memoria collettiva che riemergono dal passato. E poi c’è lui, Khaled, registrato negli incontri con Fanelli tra il 2011 e il 2021, con quella voce che oscilla tra la giustificazione e il rimorso, tra la rabbia e la paura di essere ancora braccato. L’elemento più disturbante è proprio questo: ascoltare Khaled non è ascoltare un mostro, ma un uomo che racconta di essere stato usato. «È stata una trappola», ripete. E qui Fanelli compie un’operazione delicata: non assolve, non giustifica, ma nemmeno condanna a priori. Lascia che sia l’ascoltatore a navigare quelle acque torbide, a chiedersi dove finisca la manipolazione e dove inizi la responsabilità individuale. Purtroppo, Khaled oggi non può più raccontare la sua storia, muore nel 2021 dopo la sua abitudinaria colazione al bar, di infarto. Raffaella Fanelli ci fa capire chiaramente che ancora oggi le circostanze di quella morte improvvisa non sono mai state del tutto chiarite. Però, il podcast si chiude con un importante ponte verso il presente: il 7 ottobre 2023, l’attacco di Hamas, il genocidio a Gaza raccontato da Giulio Cavalli. Quarant’anni dopo Fiumicino, la storia si ripete con una violenza ancora più devastante. E quella domanda posta da Khaled - «possibile che il Mossad non sapesse?» - echeggia identica, inquietante.
"A Fiumicino ho ucciso" non è un podcast per chi cerca risposte definitive. È per chi ha il coraggio di stare seduto accanto all’assassino e ascoltarlo fino in fondo, sapendo che la verità, forse, non la troveremo mai.
"A Fiumicino ho ucciso" non è un podcast per chi cerca risposte definitive. È per chi ha il coraggio di stare seduto accanto all’assassino e ascoltarlo fino in fondo, sapendo che la verità, forse, non la troveremo mai.
LA VICENDA
Il 27 dicembre 1985, alle 9 del mattino, quattro giovani palestinesi entrano nel terminal dell’aeroporto Leonardo da Vinci di Fiumicino. Hanno tra i 15 e i 18 anni, fanno parte dell’organizzazione di Abu Nidal e arrivano da Sabra e Shatila. Sotto le giacche nascondono kalashnikov e bombe a mano recuperate nei giorni precedenti a Villa Glori, dove erano state sotterrate. Il loro obiettivo è il banco della compagnia israeliana El Al: il piano prevede di prendere ostaggi per ottenere la liberazione di detenuti palestinesi.
Contemporaneamente, a Vienna, un altro commando colpisce l’aeroporto della capitale austriaca: tre morti, quaranta feriti. A Fiumicino la situazione precipita in pochi istanti.
Gli agenti del Mossad, già presenti nel terminal dopo un’allerta dei servizi segreti italiani, aprono il fuoco. Scoppia una sparatoria violentissima. Il bilancio finale è drammatico: sedici morti, tra cui tre terroristi, e decine di feriti. L’unico sopravvissuto del commando è Khaled Ibrahim Mahmoud, diciottenne, colpito più volte ma vivo. Viene arrestato e processato.
Nel 1988 riceve una condanna a trent’anni di carcere.
Anche Abu Nidal, considerato il mandante, viene condannato all’ergastolo in contumacia.
Il processo solleva interrogativi mai risolti: chi sparò per primo? Quante vittime furono causate dai terroristi e quante dal fuoco incrociato con il Mossad?
L’inchiesta del giudice Rosario Priore accerta la provenienza delle armi - Bulgaria, Polonia, URSS - ma non riesce a stabilire la dinamica esatta della sparatoria.
Khaled sconterà venticinque anni nel carcere di Rebibbia, uscendo nel 2010. Morirà per infarto nel febbraio 2021, in circostanze mai del tutto chiarite.
Il 27 dicembre 1985, alle 9 del mattino, quattro giovani palestinesi entrano nel terminal dell’aeroporto Leonardo da Vinci di Fiumicino. Hanno tra i 15 e i 18 anni, fanno parte dell’organizzazione di Abu Nidal e arrivano da Sabra e Shatila. Sotto le giacche nascondono kalashnikov e bombe a mano recuperate nei giorni precedenti a Villa Glori, dove erano state sotterrate. Il loro obiettivo è il banco della compagnia israeliana El Al: il piano prevede di prendere ostaggi per ottenere la liberazione di detenuti palestinesi.
Contemporaneamente, a Vienna, un altro commando colpisce l’aeroporto della capitale austriaca: tre morti, quaranta feriti. A Fiumicino la situazione precipita in pochi istanti.
Gli agenti del Mossad, già presenti nel terminal dopo un’allerta dei servizi segreti italiani, aprono il fuoco. Scoppia una sparatoria violentissima. Il bilancio finale è drammatico: sedici morti, tra cui tre terroristi, e decine di feriti. L’unico sopravvissuto del commando è Khaled Ibrahim Mahmoud, diciottenne, colpito più volte ma vivo. Viene arrestato e processato.
Nel 1988 riceve una condanna a trent’anni di carcere.
Anche Abu Nidal, considerato il mandante, viene condannato all’ergastolo in contumacia.
Il processo solleva interrogativi mai risolti: chi sparò per primo? Quante vittime furono causate dai terroristi e quante dal fuoco incrociato con il Mossad?
L’inchiesta del giudice Rosario Priore accerta la provenienza delle armi - Bulgaria, Polonia, URSS - ma non riesce a stabilire la dinamica esatta della sparatoria.
Khaled sconterà venticinque anni nel carcere di Rebibbia, uscendo nel 2010. Morirà per infarto nel febbraio 2021, in circostanze mai del tutto chiarite.

