«Quando il calcio era una scuola di vita». Gigi Cagni e un'etica da ritrovare presto

Il tecnico del Piacenza dei miracoli ha presentato alle Rotative il suo libro "Rànget", molto più di un'autobiografia sportiva

Giorgio Lambri
Giorgio Lambri
|2 settimane fa
«Quando il calcio era una scuola di vita». Gigi Cagni e un'etica da ritrovare presto
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Prima che l’allenatore c’è l’Uomo Cagni - volutamente con la U maiuscola- nel libro “Rànget! Cinquant’anni a imparare dal calcio” (Giulio Perrone Editore) presentato ieri sera alle Rotative. Poco meno di 250 pagine che non c’entrano niente con tante melense e celebrative autobiografie di vecchi protagonisti dello sport. C’è parecchio calcio, sicuro, ma come metafora della vita e come messaggio per crescere, in un “mondo al contrario” che a differenza di quello “vannacciano” ha precise ragion d’essere, ad esempio nell’educazione famigliare. «Oggi i genitori chiamano continuamente i figli “amore” così la parola inevitabilmente perde valore» spiega il mister, sollecitato dalle domande del giornalista Paolo Gentilotti, “scriba” di un Piacenza leggendario, e introdotto dal direttore Gianluca Rocco. «Mio papà e mia mamma non mi hanno mai chiamato così - prosegue - il loro amore me lo hanno fatto capire ogni giorno con l’esempio». 
Ma attenzione, il libro di Cagni non è sterilmente nostalgico, parte dallo schietto senso di umanità che intesse il suo rapporto con lo sport, per far capire che imparare ad “arrangiarsi” è stata la chiave di volta del suo successo: «Nei momenti peggiori ho tirato fuori il meglio del mio carattere» chiosa, interrogando più volte la folta platea per capire se recepisce il suo messaggio. «Nella vita non mi sono mai annoiato - spiega - forse perché ho sempre fatto scelte che cavalcavano prima di tutto le mie emozioni. Come nasce il libro? Soprattutto dopo il Covid ho visto cose che non mi piacevano, ragazzi viziati in un contesto di pressoché totale mancanza di regole. Nel calcio, ma anche nella vita di tutti i giorni. Qualche giorno fa guardavo la Nazionale in televisione e mi è capitato di vedere Tonali, che ho fatto esordire io in prima squadra a sedici anni, cadere senza alcun contatto con l’avversario, rotolarsi a terra, venire soccorso da medico e massaggiatore, uscire dal campo apparentemente dolorante e subito dopo rientrare correndo come se niente fosse. Capite che in tutto questo c’è qualcosa di profondamente sbagliato. Quando sono arrivato al settore giovanile del Brescia, a 15 anni, mi hanno subito imposto regole fondamentali, tipo che non dovevo urlare se prendevo un calcio né mettermi le mani nei capelli strepitando se prendevamo un gol». 
Il discorso scivola inevitabilmente su Piacenza e sull’epopea biancorossa. Nella quale Cagni esprimeva un dogma-cardine anche del suo libro: «Il calcio è semplice - scrive e spiega -  chi vince e perde sono gli uomini che vanno in campo, non gli allenatori che appena arrivati in una piazza sbandierano il loro modulo».  
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Vincono gli uomini, quelli veri. Come Bobo Maccoppi, Moretti, Taibi - presenti in platea - ma anche come De Vitis, Lucci e tanti altri. Ma vince anche il contesto. «Quello del Piacenza mi è piaciuto fin dal giorno in cui il ds Marchetti, bresciano come me, mi ha portato in una sperduta osteria di campagna per presentarmi il compianto Quartini, braccio destro di Garilli, che dopo tre parole ha sentenziato “l’è dei noster” - racconta con enfasi Cagni - o quando ho incontrato per la prima volta l’ingegnere e mi sono presentato in giacca e cravatta ma con le mani in tasca. Lui mi è venuto incontro, mi ha sferrato un benevolo cazzotto nello stomaco e mi ha chiesto se tenessi le mani in tasca per “tenere su le balle”. Io ho guardato sbigottito Quartini, che ancora una volta ha sentenziato: “gli sei piaciuto” perché Garilli metteva le mani addosso solo alle persone che stimava. Nel frattempo ero andato a vedere una partita del Piacenza in gradinata, mimetizzato con un cappellino come mi aveva suggerito Marchetti; peccato che a fine primo tempo mi è passato davanti un signore che guardandomi ha detto ai vicini in dialetto piacentino che ero il futuro allenatore biancorosso». È un fiume in piena Gigi Cagni, l’amico fraterno Angelo Spelta ne rivela aspetti umani divertenti, ma anche l’ideale di un calcio che è tempra, sacrificio e capacità di fare onestamente i conti con sé stessi. Il presidente del Piacenza calcio, Marco Polenghi, gli dona una maglia con il suo nome e il numero 10, mentre in platea applaudono emozionate tante figure importanti di quella grande famiglia che è diventata un miracolo calcistico: le vedove e i figli di Gianni Rubini e Gian Nicola Pinotti. Gli aneddoti si sprecano, il filo dei ricordi segue la corrente come l’acqua di un torrente. Fino all’immancabile canto finale, “...e quando Gigi Cagni in piedi si alzerà, allora vorrà dire che saremo in serie A». 
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