Inchiostro e matite? No, grazie: per fare i fumetti è meglio la macchina fotografica

Per oltre mezzo secolo hanno fatto sognare le lettrici, fra sospiri, emozioni e tanto... fotoromanticismo

Alessandro Sisti
|5 ore fa
"Cinevita" della Edital, nel 1936 apre la strada al fotoromanzo- © Libertà/Alessandro Sisti
"Cinevita" della Edital, nel 1936 apre la strada al fotoromanzo- © Libertà/Alessandro Sisti
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In un corso di laurea magistrale (con studenti fra i 22 e i 25 anni, non della Generazione Alfa cresciuta a pane, smartphone e quasi nient’altro), trattando di modelli narrativi e relativi media ho citato i fotoromanzi. Dopodiché, fra sguardi volutamente sfuggenti e in un silenzio imbarazzato del tipo “quando ne avrà parlato? Forse ero assente”, mi sono reso conto che nessuno sapeva cosa stessi dicendo. È stato il mio turno di cadere dalle nuvole. Dai, quelli con le foto al posto delle vignette! Al che una fanciulla particolarmente intuitiva ha domandato «una specie di fumetti»? Esatto, però non “una specie”, proprio fumetti. Prima di proseguire concedetemi un inciso, perché non vorrei aver dato l’impressione che i miei discenti di cui sopra siano un’accolita d’impreparati, trattandosi invece di creativi altamente specializzati… che non hanno mai visto un fotoromanzo, il che mi ha fatto venir voglia di dedicare l’Officina settimanale a questo genere di racconti, per chi se ne ricorda e magari tuttora li legge, come per quanti ne scoprissero oggi l’esistenza. Racconti – lo ripeto – a fumetti e se li considerate qualcosa di diverso, mettiamoci d’accordo su cosa s’intende per fumetto: un mezzo di comunicazione che associa immagini statiche e parola scritta, collocando i dialoghi in maniera che sembrino pronunciati dai personaggi. Secondo alcuni deve inoltre essere sequenziale, ossia composto da scene successive e coerenti unite a formare una storia, ma da nessuna parte sta scritto che debbano essere disegnate. I fotoromanzi soddisfano tutte queste specifiche e sono quindi fumetti a pieno titolo, per di più di un tipo concepito in Italia e divenuto popolare in tutto il mondo. La loro data di nascita è il 1936, epoca di grandi passioni cinematografiche, ma per quante volte si rivedessero i film più amati (il costo del biglietto era relativamente accessibile), non c’era modo di farli propri se non con la memoria. Un desiderio al quale la milanese Edital – Edizioni Italiane rispose con la collana “Cinevita”, destinata a durare fino al 1946, le cui vignette erano fotogrammi delle pellicole di successo, con le battute come sottotitoli e lunghe didascalie di collegamento per riassumere le trame. Proposti col nome di “cineromanzi”, non erano ancora propriamente fotoromanzi, ma segnavano l’invenzione di un linguaggio.
"Signorinelle". fotoromanzo
"Signorinelle". fotoromanzo
La creazione di sceneggiature originali inizia nel secondo dopoguerra, quando cambia la scena internazionale. Se i cineromanzi degli anni Trenta e Quaranta venivano innocentemente piratati chiedendo tutt’al più il permesso ai distributori nazionali dei film, adesso occorrono licenze rilasciate dalle case produttrici, ci sono diritti da pagare e la richiesta da parte di una platea desiderosa di svago in un’Italia che cerca di rimettersi in piedi è aumentata. I film in circolazione non bastano, servono più storie e nel 1947 arrivano in edicola quasi contemporaneamente i primi veri fotoromanzi, “Il mio sogno” e “Bolero Film”. Il primo, dal sottotitolo “Settimanale di romanzi d’amore a fotogrammi”, è una creazione di Giorgio Camis De Fonseca con Stefano Reda – alias del giornalista Fulvio Gicca Palli, cultore di narrativa e fotografia – ed è pubblicata dalla casa editrice Novissima, mentre “Bolero Film” esce per Mondadori. Lo dirige Luciano Pedrocchi (fratello dello sceneggiatore di fumetti Federico, direttore di “Topolino” fino al ‘43), insieme al regista, saggista e attore Damiano Damiani e al giornalista scrittore e drammaturgo Cesare Zavattini, entrambi autori cinematografici: trio illustre che conia il termine “fotoromanzo”. I racconti sono a puntate e composti da poche pagine ovviamente in bianco e nero, nondimeno la lavorazione è impegnativa. Richiede un copione, attori e ambientazioni per i set fotografici, di cui bisogna visionare i negativi e selezionare gli scatti da pubblicare, stampare e impaginare con i testi inseriti, il tutto manualmente e con una periodicità settimanale. Serve una grande organizzazione e “Il mio sogno”, ridotto il titolo a “Sogno”, confluisce così in Rizzoli, di cui Camis De Fonseca era socio, ma c’è un’altra casa editrice attrezzata per simili imprese. È la Universo dei fratelli Del Duca, che dal 1935 pubblica “L’Intrepido” e dal ‘46 “Grand Hotel”, con fumetti tradizionali, avventurosi nell’uno e romantici per il secondo, che già vende centinaia di migliaia di copie e nel 1947 esordisce con il primo dei suoi fotoromanzi, che progressivamente sostituiranno i fumetti disegnati. Il pubblico colto storce il naso e i critici li definiscono letture per servette, con le usuali resistenze verso le novità che crescono dal basso. Scontate quanto irrilevanti per una tendenza inarrestabile, forte di storie che appassionano le masse e d’attori allora famosi accanto a volti nuovi che diverranno internazionali. Due fra tutti, quello di Giana Loris, che nel 1947 recita nei primi due fotoromanzi di “Sogno”, e quello di Sofia Lazzaro, che nel ‘51 debutta sulle stesse pagine. Sono i primi nomi d’arte usati da Gina Lollobrigida e Sofia Loren, cui nel tempo si sono aggiunti Giorgio Albertazzi e Franco Califano, Philippe Leroy o Raffaella Carrà. A metà degli anni Cinquanta la tiratura dei fotoromanzi supera 1.600.000 copie alla settimana (ma nel 1958 la sola “Sogno” toccherà i due milioni), hanno i propri divi per i quali le lettrici smaniano e nel 1952 Federico Fellini ci s’ispira per “Lo Sceicco Bianco”, la sua prima regia, dove una sposina diserta il viaggio di nozze per conoscere l’attore di fotoromanzi preferito, interpretato da Alberto Sordi. Nel 1959 perfino Famiglia Cristiana pubblica fotoromanzi a tema edificante e nel 1961 al gruppo degli editori si aggiunge Lancio, con la rivista “Letizia”. È mensile, non settimanale, anziché romanzi a puntate offre storie complete e il cambiamento piace al punto di convincere l’editore ad affiancarla con altri cinque titoli, che in tre anni totalizzano una diffusione di un milione di copie al mese.
Fino agli anni Settanta il gradimento del pubblico non fa che crescere, generando una costellazione di testate dove “Sogno”, “Bolero” e “Grand Hotel” continuano a primeggiare, ma è Lancio a investire nelle produzioni più ambiziose, portando i set in città al centro dell’immaginario delle lettrici come Parigi, New York o Venezia e realizzando sulla laguna il primo fotoromanzo a colori. Nel 1976 la vendita tocca gli 8.626.000 copie al mese, il fotoromanzo punta a coinvolgere le lettrici adolescenti con nuovi magazine come “Ragazza In” e “Dolly” seguiti nel 1980 da “Cioè” e nella seconda metà degli anni Ottanta “Il Giornale di Barbie”, edito da Mondadori per Mattel, lancia i mini-fotoromanzi interpretati dalla celeberrima bambola, che entusiasmano anche le più piccole. Eppure il declino è iniziato. Le categorie di consumo dell’intrattenimento di massa stanno cambiando, il pubblico si restringe e le testate chiudono una dopo l’altra o cercano di adeguarsi, come “Bolero”, che passata all’editore Alberto Peruzzo diventa “Tele Bolero” e pubblica in versione fotoromanzata le telenovelas che vanno per la maggiore. Al presente, almeno a quanto ne so, l’unica superstite, seppure con un lettorato fedelissimo, ampio e spesso ereditario, è la storica “Grand Hotel”. Con le attuali tecniche di fotografia e impaginazione digitali a semplificare il lavoro e abbattere i costi nonché l’opportunità di pubblicare online invece che su carta, forse è il momento di recuperare un genere che ha ancora spazi da offrire alla creatività.