La città degli invisibili all'ombra della Lupa: «Ci arrangiamo»
Decine di stranieri vivono nelle palazzine fatiscenti dell'ex consorzio agrario. Sgombero del Lungo Po: pulizia delle "favelas", esodo per una decina
Redazione
|1 mese fa

Uno scorcio dell'area dell'ex consorzio agrario
Tra via Colombo e La Lupa, a Piacenza, c’è una città nella città che vive a un ritmo tutto suo e con regole proprie. Una zona riparata, nascosta, quasi off limits, dove la vita scorre ai margini, invisibile per molti, ma reale per chi ci abita.
È qui, tra le palazzine diroccate dell’ex consorzio agrario di Terrepadane, che una comunità di uomini e donne, nemmeno piccola, composta da molti stranieri e qualche italiano, ha trovato un fragile equilibrio. Per necessità o per scelta. Non hanno una casa e un lavoro, e nemmeno forse li vogliono, ma hanno trovato nella strada la propria famiglia.
Nelle stanze fredde con finestroni (spesso rotti) e nei capannoni dismessi si accendono fuochi improvvisati, fatti con l’alcol etilico e le lattine di tonno. Lì si cucina riso, pollo, a volte qualcosa che ricorda i sapori di casa. Congolesi, senegalesi, marocchini, albanesi, nigeriani: ognuno ha portato un pezzo di mondo diverso, eppure qui convivono, dividendosi gli spazi per etnia, rispettando una sorta di equilibrio silenzioso, talvolta precario. Ci sono anche alcuni italiani, finiti per strada dopo separazioni, liti, debiti, lavori persi.
Molti di loro hanno avuto guai con la giustizia, altri ancora li hanno in corso. Ma la verità è che ormai, pur essendo giovani o anche giovanissimi, non saprebbero più vivere altrove e ricostruirsi. «È la nostra vita, la nostra famiglia. Dormire e mangiare? Ci arrangiamo» dicono, lasciando in sospeso il reale significato dell’arte di arrangiarsi. E per lavarsi la mattina la lunga coda alla "stazione di posta" di via Bolzoni dove mercoledì 29 ottobre alle 13, orario di apertura, erano già in attesa in 35 per farsi una doccia nell’unica disponibile (grazie alla comunità Papa Giovanni XXIII e a La Ricerca). Alcuni erano meccanici, facchini, carrellisti, qualcuno ha persino studiato. Poi le vicende della vita li hanno spinti qui, tra le rovine e il silenzio, dove si sopravvive giorno per giorno. Il lavoro, quando c’è, arriva a singhiozzo. Ma più che la povertà, è la rassegnazione ad aver preso il sopravvento.

Vite al limite, dove la città si nasconde a sé stessa, in quella terra di mezzo fra la ferrovia e l’argine, sotto il viadotto dell’A21, fra via Nino Bixio e via del Pontiere. Lì è cominciato un mini esodo, che è mini solo per chi non lo vive sulla propria pelle e riguarda una decina di persone.
Mihai Constantin, sessant’anni circa, ha dormito all’aperto. Si è coricato su un materassino posato sul sentiero che attraversa la boschina che porta alla baracca in via Nino Bixio a una manciata di metri dalla ferrovia. L’unica baracca rimasta delle due che ha costruito e dove vive da 11 anni. Dopo i primi lavori di pulizia, della sua resiste infatti solo una mezza parete di legno crollata. Nell’altra capanna hanno dormito il figlio, 28 anni, che porta lo stesso nome, e la compagna. Hanno chiesto all’uomo di dormire nella loro minuta stanza, ma non ha voluto. Ha preso due coperte leggere per proteggersi dai 12 gradi, si è coricato e ha chiuso gli occhi, chissà se chiudendoli ha visto la sua vita come vorrebbe che fosse, mentre i treni passavano lungo i binari, separati da una rete arancione da cantiere.

