Con un colpo di fortuna plastica e numeri: la storia segreta del Mastermind

Un creatore di giochi e un consulente di un’azienda di materie plastiche hanno trasformato un gioco dell’800 in un’icona pop

È il 1970 e un distinto quarantenne si aggira per le sale della Fiera internazionale del giocattolo di Norimberga. Il suo nome è Mordecai Meirowitz, un direttore delle poste israeliane con una grande passione per la creazione di giochi che ha investito parte dei suoi risparmi in quel viaggio per promuovere il suo ultimo prototipo, in cui credeva moltissimo. Peccato che i grandi editori di board game non la pensassero come lui e dopo numerosi rifiuti, l’entusiasmo di Mordecai cominciava a svanire.

Il proverbiale colpo di scena arrivò quando a mostrare interesse per la sua idea non fu uno dei grandi produttori mondiali di giocattoli, ma un’azienda inglese produttrice di materie plastiche: la Invicta Plastics Ltd. Da quella strana alleanza nacque uno dei passatempi più rappresentativi degli anni ’70 e parte degli anni ’80, ovvero il Mastermind.

Inizialmente, la Invicta Plastics si occupò direttamente della produzione del gioco, con i suoi “chiodini” colorati e l’iconica plancia marrone in plastica, ma il crescente successo portò presto alla decisione di concederne la licenza ad altri giganti dell’industria, come la Hasbro, e così scoppiò una vera Mastermindmania, alimentata anche da nuove versioni, come quella per quattro giocatori, quella da viaggio, quella elettronica… per un totale di oltre 20 varianti, l’ultima delle quali è uscita nel 2004 con il nome di New Mastermind.

È quindi possibile dire che Mordecai Meirowitz sia stato colui che ha creato uno dei meccanismi di gioco più popolari e apprezzati al mondo? In realtà no, perché ebbe semplicemente la geniale intuizione di dare una forma fisica a qualcosa che già esisteva.

Le origini di Mastermind sono da ricercare in un gioco “carta e penna” dal bucolico nome di Tori e Mucche (in inglese Bulls and Cows), in cui un giocatore pensava una sequenza di quattro numeri e la scriveva in modo che il suo avversario non potesse vederla. Per scoprirla, il secondo giocatore proponeva a sua volta una sequenza e riceveva in cambio degli indizi: se aveva indovinato il numero giusto al posto giusto, era un “Toro”, mentre un numero giusto nel posto sbagliato era una “Mucca”.

Combinando le informazioni ottenute tentativo dopo tentativo, era possibile scoprire i numeri dell’avversario, e chi ci riusciva nel minor numero di turni era il vincitore.

Le origini di questo passatempo sono fatte risalire al XIX secolo, forse anche prima, nell’Europa orientale o in India, ma è nei paesi anglosassoni che si diffonde come Bulls and Cows. Il perché di questo nome resta un mistero, ma sembra abbia a che fare con il termine inglese bullseye, che può essere tradotto come “fare centro”.

Molto amato dai matematici, non stupisce che il suo concetto sia sta-to anche alla base di uno dei primi videogame della storia. Nel lontano 1968, quando i computer occupavano intere stanze, venne creata una versione digitale di Tori e Mucche sul mainframe dell’Università di Cambridge da un programmatore di nome Frank King, il quale rinominò il gioco semplicemente Moo. Tra i tanti giocatori ed estimatori di quella versione digitale c’era anche il dottor John Billingsley, che all’inizio degli anni ’70 lavorava come consulente per un’azienda di materie plastiche chiamata Invicta. È qui che il cerchio della nostra storia si chiude. Fu infatti Billingsley a riconoscere il potenziale nell’idea di Meirowitz che, sostanzialmente, proponeva una versione “senza corrente” di Moo, con i numeri sostituiti dai colori e gli indizi “bovini” rappresentati da chiodini bianchi e neri.

La storia di Mastermind è quindi quella di un’idea che galleggiava nell’aria, alla portata di tutti, e che, grazie a una serie di fortunate circostanze, è stata trasformata in una forma che sarebbe poi diventata parte della cultura pop moderna, formando nuove generazioni di matematici e crittografi!

di Carlo Chericoni

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