Il parmigiano Ventura, una faccia da cinema dal cuore grande così
«Lei è italiano? Di che origine?». Non era abituale vedere Lino Ventura indispettito, ma quella mattina di maggio a Cannes, durante la presentazione di “Centomila dollari al sole” (Henri Verneuil, 1964), un giornalista della Rai ci riuscì in pieno. «E parla perfettamente italiano?». Sì, Angiolino Giuseppe Pasquale Ventura parlava «perfettamente» italiano, nato com’era a Parma nel 1919. Un giorno a caso, il 14 luglio. Nemmeno Zeus sfuggì al Fato. La vita a Borgo Paggeria si era interrotta nel 1926, quando l’inasprimento della crisi economica e la violenza sociopolitica svegliò nei Ventura il sogno della Francia. Il padre, Giovanni, sparì non appena varcata la frontiera. Luisa e il suo unigenito scambiarono la Ghiaia per una casa senz’acqua corrente né elettricità a Montreuil, quartiere parigino degli italiani, la comunità straniera più numerosa del Paese. Da allora, la cronaca di un “rital” annunciato: legge della strada e conti diari con la solitudine e l’emarginazione. La “bestiolina difficile da ammansire” balzava da un lavoretto all’altro senza concludere niente, fino al riscatto attraverso lo sport: sui ring del dopoguerra, Angelo Borrini – cognome materno – diventò campione d’Europa di lotta greco-romana. Ci pensò una frattura della gamba a stroncargli la carriera.
Una storia da manuale di cinema, del resto, sempre presente nella sua vita: a Parma, andava a vedere Charlot all’Orfeo o al Lux; stessa routine a Parigi, all’Apollo di rue de Clichy, dove faceva maratone “fantozziane” di commedie musicali e noir americani fino a notte fonda. Qualche anno dopo, quel ragazzo avrebbe rifiutato proposte di Francis Ford Coppola e Steven Spielberg.
Il salto mai immaginato arrivò grazie a Jacques Becker, in cerca di “una faccia da gangster molto muscoloso”. Detto fatto, “Grisbì” (1954) segnò l’esordio e il primo incontro con Jean Gabin. «Non ci credo che questo tipo non abbia mai fatto del cinema», disse al regista. I due diventarono colleghi,
amici, fratelli per scelta. Mentre il suo nome cominciava ad assaltare le locandine, Lino tesseva incontri professionali e personali decisivi. Uno su tutti, José Giovanni, penna dietro “Asfalto che scotta” (1960). Lo straordinario noir di Claude Sautet venne travolto dall’uragano della Nouvelle Vague, ma il personaggio di Abel Davos, padre braccato dalla polizia, a picco su un mare di solitudine, stritolò gli stereotipi: il nuovo “gorilla” del cinema francese custodiva un universo dentro di sé.
A spalancare in maniera definitiva i cancelli del cielo furono “In famiglia si spara” (Georges Lautner, 1963), parodia delle ritualità malavitose che capovolse l’immaginario culturale transalpino, e l’incontro con Jean-Pierre Melville. Se le frizioni non mancarono, i risultati dell’intesa si rivelarono sublimi: “Tutte le ore feriscono… l’ultima uccide” (1966) e “L’armata degli eroi” (1969), che lo trasformò in un membro della Resistenza. Tutto vero: nel 1942 era stato chiamato sotto le armi e destinato a Gradisca d’Isonzo; 14 mesi e 300 lettere d’amore a Odette Lecomte dopo, passò alla clandestinità e si unì alla lotta contro i nazisti per le strade di Parigi.
L’immigrato che perdeva le ore nel cortile della scuola era diventato il simbolo della Francia. E non avevano ancora bussato alla porta “Il clan dei siciliani” (Henri Verneuil, 1969), “Ultimo domicilio conosciuto” (José Giovanni, 1970) o il dittico di Claude Lelouch, “L’avventura è l’avventura” (1972), spalla a spalla con Aldo Maccione – «Non mi sono mai divertito così tanto su un set!»- e “Una donna e una canaglia” (1973). Ma anche “Dai sbirro” (Pierre Granier-Deferre, 1975), “Morti sospette” (Jacques Deray, 1978), “Guardato a vista” (Claude Miller, 1981). Impossibile condensare 30 anni di luminosa carriera. Probabilmente, il riassunto perfetto dell’uomo e dell’attore esplose in un altro monumento nazionale, Jean Valjean (“I miserabili”, Robert Hossein, 1982): umanità, sobrietà, fierezza, l’orgoglio di chi ha patito la fame e soprattutto quella “eleganza morale” di cui parlava Verneuil. Perché, oltre al cinema, nel 1958 la nascita di Linda aveva messo Lino e Odette a capo di una rivoluzione nel modo di trattare la disabilità. Oggi, la loro fondazione Perce-Neige conta una quarantina di sedi in tutta Francia e si prende cura di più di un migliaio di persone. E l’Italia? Beh, l’Italia di rado volse lo sguardo verso Lino.
Appena una manciata di lavori in patria, tra cui “La ragazza in vetrina” (Luciano Emmer, 1961), spaccato dell’immigrazione nelle miniere dei Paesi Bassi, “Il re di Poggioreale” (Duilio Coletti, 1961) e “Uomini duri” (Duccio Tessari, 1974). Ciò nonostante, riuscì a calare l’asso nella sua lingua madre, eccome, quando Francesco Rosi lo preferì al feticcio Gian Maria Volontè in “Cadaveri eccellenti” (1976). Lui, che non si era prodigato per il cinema politico, tenne una lezione di maturità artistica nella pelle del commissario Rogas. Una lettura dell’Italia dalla lucidità intellettuale spaventosa, peccato mortale nel Paese servo del compromesso storico. E il colpo di grazia: affascinato dalla figura del generale Carlo Alberto Dalla Chiesa, lasciò l’anima in “Cento giorni a Palermo” (Giuseppe Ferrara, 1984), per poi scoprire che sarebbe stato doppiato a causa della delicata musicalità francese.
Ecco l’ultimo atto di un immenso amore di andata senza ritorno. Ventura non volle mai la cittadinanza francese, “sarebbe rinnegare le proprie origine con una firma in calce a un foglio”, preoccupandosi giorno per giorno di mantenere il legame con la terra.
Dopo la sua morte, il 22 ottobre del 1987, un giornale italiano scrisse che “il suo vero nome era Angelo Bonini”; un altro, che “non essendo una star”, era impossibile “imbastirne un ricordo suggestivo. Vivrà soltanto nel ricordo di quelli che l’hanno conosciuto direttamente”. Per fortuna, nel frattempo, Lino si era anche preoccupato di scrivere uno dei capitoli più belli della storia del cinema.
di Yolanda Fuertes García
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