L’omaggio di Piacenza al genio di David Lynch, un poker di cinema allo stato puro

Il protagonista di “Una storia vera” sul trattore

David Lynch è morto da qualche giorno e il popolo del cinema sta ancora affollando i social di ricordi e d’amore per uno dei cineasti più generativi del cinema contemporaneo che dagli anni ’80 fino a all’interpretazione di John Ford, due anni fa, in “The Fabelmans” di Steven Spielberg, ha impiantato nella nostra testa immagini e parole che ci resteranno per sempre. Dalle creature deformi di “Eraserhead” e “The Elephant man” passando per il primo tentativo di adattare “Dune” fino al romanzo di formazione attraverso la brutalità di “Velluto blu” e alla storia d’amore di tutte le storie d’amore che è “Cuore selvaggio” per arrivare a far parlare il mondo con “Twin Peaks” e il successivo “Fire walks with me”. Nella seconda parte della sua carriera Lynch inaugura una stagione di film a chiave, dal melò noir di “Strade perdute” fino ai titoli sul cinema, “Mulholland Drive e “Inland Empire”, interrotti dal suo lavoro più lineare e commovente, “Una storia vera”, e conclusa, 25 anni dopo, dall’ultima parte della sua fenomenale serie tv, amatissima dalla critica e considerata di fatto un film molto lungo, “Twin Peaks: il ritorno”, nel 2017. In mezzo ci sono corti, documentari, videoclip, apparizioni: la mente creativa di Lynch non cancella, ma contamina e semina il terreno per diverse generazioni di cineasti, da Stanley Kubrick a Ridley Scott, per proseguire con Darren Aronofsky, Gaspar Noè, Richard Kelly, Jonathan Glazer, Bertrand Bonello, e la serialità televisiva tutta che non è mai più stata la stessa dopo “Twin Peaks”.

Grazie alla Cineteca di Bologna che nel 2023 gli ha dedicato una retrospettiva, abbiamo l’occasione di rivedere in sala quattro film dell’universo lynchiano: “The Elephant Man” (1980) che su basi storiche affronta il tema dell’etica e della morale mettendo in scena un freak, John Merrick, un uomo dalla testa deforme esibito come fenomeno da baraccone, e il suo incontro con il dottor Treves, che decide di occuparsene inizialmente a scopo medico, per poi arrivare a sviluppare nei suoi confronti un affetto sincero.

Un film che si muove, come sempre in maniera brillantissima, sulla visione, sullo svelamento progressivo del volto del “mostro” e sulla differenza dello sguardo, da quello spaventato della folla che per affrontare la diversità ha bisogno di riderne, offenderla, colpirla, a quello accogliente dell’artista, che ne coglie la sensibilità, a quello scientifico del dottore, che viene accolto da Merrick fino a condividerne l’umanità, a quello dello spettatore in sala, stretto tra commozione e consapevolezza, quella di chi sa che la risposta più probabile è la paura e il disagio. Ma Lynch è maestro nel trascinare il suo pubblico fuori dalla comfort zone, e con “Lost Highways” ci spinge verso un’altra attrazione da circo, dove niente è quello che sembra: la pellicola del 1997 è un neo noir non lineare dove la strada divisa a metà che introduce e chiude il film offre la possibile interpretazione di una mente divisa. Il protagonista Fred Madison è un jazzista di alto livello che patisce per la evidente disgregazione del suo matrimonio: la moglie Renée evidentemente lo tradisce e mentre accadono eventi inquietanti (il ritrovamento delle videocassette, l’incontro con l’uomo misterioso), finisce per essere assassinata.

“Lost Highways”, Lynch spinge gli spettatori verso un’altra attrazione da circo

Fred viene accusato del suo omicidio e rinchiuso in prigione aspettando di essere giustiziato: dove apparentemente inizia un altro film, in cui Fred diventa il meccanico Pete e Renée la bionda Alice, quello che vediamo è un meccanismo di dissociazione del protagonista, che si rifugia in un universo parallelo destinato comunque alla corruzione. Sono complesse architetture narrative che scompaiono nel film successivo, “The straight story” (1999), un road movie stravagante che arriva dritto al cuore, come il viaggio accaduto veramente di Alvin Straight, un contadino dell’Iowa che a 73 anni decide di andare a trovare il fratello colpito da un infarto attraversando diversi stati a bordo di un tosaerba. “Hai fatto tutta questa strada per venire da me?” “Sì ”. L’ultimo titolo della rassegna è “Mulholland Drive” (2001) riconosciuto dalla critica internazionale come uno dei più grandi film del XXI secolo: oggi luogo devastato dagli incendi che hanno colpito la California, Mulholland Drive è la strada (l’ennesima percorsa da Lynch) che significa Hollywood o morte, e ovviamente è una storia che parla d’amore e di sogni frustrati come “Viale del tramonto” di Billy Wilder, regista molto amato da Lynch e uno dei più grandi registi di noir della storia del cinema.

La Hollywood di Lynch è il tritacarne e il sogno del cinema, ossessione di un altro cineasta contemporaneo come Damien Chazelle che ne ha celebrato il lato romantico e quello infernale in quei titoli opposti e gemelli che sono “La La Land” e “Babylon”. Ancora una volta lo spettatore prova ad appoggiarsi alla propria razionalità rincorrendo Rita e Betty e i loro doppi Diane e Camilla, e finendo spesso per restare intrappolato nella narrazione escheriana di Lynch, dove ogni sentiero può condurre a un finale diverso, a una rimozione, a una rielaborazione, a un sogno o a un incubo.

La retrospettiva sarà proposta, in versione originale con sottotitoli in italiano, dal cinema Corso che comincerà il 29 gennaio con “The Elephant Man” per poi proseguire, sempre al mercoledì , dal 12 al 26 febbraio, e dal cinema Jolly2 di San Nicolò ogni lunedì dal 3 al 24 febbraio. Tutte le informazioni sono reperibili sui siti e sui canali social delle sale.

di Barbara Belzini

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