L’ultima intervista a Wilko Johnson, scomparso pochi giorni fa

Nel mondo della musica ci sono artisti necessari, essenziali anche restando lontano dai riflettori. Forse il chitarrista e attore Wilko Johnson, scomparso pochi giorni fa a 75 anni dopo una strenua lotta contro un tumore, è stato questo per molti anni, dopo il boom dei  Dr. Feelgood e prima di tornare alla grande con un addio che – come dice Jeff Goldblum nel Grande Freddo – somiglia molto di più a un Bang! che a uno SplashPer ricordarlo, ecco l’ultima intervista che mi rilasciò nel 2019, in occasione del suo ultimo concerto in Italia, dopo il precedente, bellissimo exploit: l’album Going Back Home con Roger Daltrey degli Who.

C’è un rock nato da personaggi mitici, oggi divenuto parte della storia, che potremmo definire leggendario. Ce n’è un altro ruspante, graffiante e più defilato. Proprio per questo motivo, probabilmente è anche il più “sincero”. Tra i maggiori rappresentanti di questo genere c’erano gli inglesi Dr. Feelgood, nati nel 1971 dall’incontro tra il cantante Lee Brilleaux e il carismatico chitarrista Wilko Johnson, affiancati dal bassista John B. Sparks e il batterista John Martin. La band si sciolse, per poco, nel 1982 e poi nel 1994, dopo la precoce morte di Lee. Suoni ruspanti e r’n’b coriaceo: la miccia è tuttora esplosiva. Nel live Stupidity (1976), non a caso il gruppo incarna l’emblema del movimento Pub Rock, nato in quel periodo a nord di Londra e dintorni.
E se dei Dr. Feelgood consigliamo, oltre al suddetto live, sicuramente l’album Malpractice (1975), con Wilko Johnson parliamo del suo ultimo lavoro e di molti altri aspetti legati al suo ritorno alle scene (che lo ha portato l’altra sera in concerto in provincia di Alessandria)  dopo aver lottato contro un tumore al pancreas.

La musica mi fa bene, la musica fa sempre bene. Le interviste, in un certo senso, sono  inutili. A cosa servono, quando la musica basta e avanza per comunicare tante cose?

Ad esempio a parlare del suo ultimo album solista Blow Your Mind?

Dopo 30 anni, ho pubblicato un album di nuove canzoni rock’n’roll, blues, reggae… è un piacere poter suonare con i musicisti della mia band, poter contare su un bassista eccelso come Norman Watt-Roy dei Blockheads. Se possiedi un simile “carico”, puoi permetterti canzoni che spaziano ritmicamente.

Il riferimento è quello alle sonorità del passato. Prova rimpianto per i Dr. Feelgood?

Sono stati una parte importante della mia vita e della mia carriera, ma non ci penso quasi mai. Se c’è una cosa che ti insegna la malattia, è non perdere tempo a guardarti indietro, a confrontarti con il passato.

Il grande passato del rock, però, resta un riferimento per le giovani generazioni, con i suoi revival e le sue reunion. Sicuramente esiste un business, ma forse c’è di più. Lei che ne pensa?

Nelle canzoni del mio nuovo album questo passato musicale è indubbiamente presente. Non lo rinnego, sarebbe molto sciocco se un musicista che ha percorso un lungo tratto di strada si mettesse a fare qualcosa di diverso come cercare di fermare il tempo o di affermarsi con un genere da ragazzini. Ho registrato Blow Your Mind  perché avevo voglia di farlo, mi è piaciuto farlo e l’idea di suonare dal vivo è ancora una bella spinta vitale. Se il pubblico risponde piacevolmente, come è accaduto con Going Back Home, il precedente album realizzato insieme a Roger Daltrey degli Who, la soddisfazione è grande. Ed è stata quella risposta positiva e forte, che mi ha probabilmente condotto fino a qui, pensando di avere altro da dire come musicista e performer.

Si era parlato di un secondo album insieme a Daltrey, poi però siete usciti, quasi contemporaneamente, con due album solisti e lo stesso produttore: Dave Eringa.

Lavorare con Dave è stato produttivo, si è discusso parecchio ma alla fine mi sono sempre trovato in sintonia con le sue scelte. Non ho voglia di litigare, non più. Ho ascoltato l’ultimo album di Roger, mi piace. Lui mi ha telefonato quando ha sentito per la prima volta le mie nuove canzoni. Ci siamo visti ma abbiamo chiacchierato di cose futili, di sport, di politica come due vecchi amici che proprio non la smettono di volersi bene. Non sempre vale la pena replicare ciò che è stato fatto bene una volta, è più coraggioso rimettersi in gioco da soli. In futuro, poi, chissà… Qualcuno diceva che non è scritto, il futuro.

Cita Joe Strummer: che ricordo ha di lui?

Joe era un grande, un uomo simpatico e dalla mente molto aperta. Quando ci ho parlato per la prima volta, si è presentato dicendo che era un fan dei Dr. Feelgood. La sua morte improvvisa e prematura è una delle tante questioni irrisolte che ho con la vita. Chissà cosa avrebbe detto, Joe, della Brexit.

E lei che ne dice?

Non saprei, cambio idea continuamente. Mi sembra una scelta adatta agli inglesi, poi però penso alle difficoltà e cambio punto di vista. Vedremo cosa succederà.

A volte, nelle canzoni si possono esprimere le proprie idee, anche politiche.

Essere un musicista ti permette tutto questo, è vero. L’arte, anche quella “minore”, concede a uomini semplici di scavalcare parecchi ostacoli. La musica non cambia il mondo, neppure Dylan è riuscito a farlo. Diciamo che però contribuisce a segnare il passo e questo è un privilegio.

Quanto raccontano, le ultime canzoni, di Wilko Johnson oggi?

Non sono certo Bob Dylan, ma brani come “Lament” sono molto vicini a quel che mi è capitato nell’ultimo periodo. A volte non si tratta di un racconto vero e proprio. Certe cose, testi inclusi, nascono suonando con la band, alcune idee vengono definite in corso d’opera. Altre volte si tratta di esprimere uno stato d’animo e allora basta la musica, le parole che si intrecciano sopra sono di importanza relativa, almeno per me. In fondo, stiamo parlando di rock e non mi stanno simpatici quelli che assumono un’aria colta. La nostra musica è potentissima proprio perché non è scesa dall’alto, ma ha radici “basse”, conosce il dolore e il sogno della strada.

È contento di esibirsi in Italia?

Sì e sono contento di potermi esibire di nuovo, è stata dura ma il palco mi fa sentire a casa. La mia fortuna è quella di poter contare sulla band e sulla vicinanza di mio figlio, che mi segue dappertutto, e su colleghi che sono anche amici. Diciamo che sono un rocker “acciaccato”  e tutti on the road devono farci i conti. Forse morirò con la chitarra in mano, vorrà dire che qualcuno me la toglierà per appoggiarla nella custodia (risata!).

Questo era Wilko Johnson, che Dio lo benedica.

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