Le regole per comunicare con i familiari. Mistraletti: “Verità e rassicurazioni”

12 Dicembre 2020 10:05

Fino a pochi mesi fa i medici non potevano fornire informazioni al telefono ai familiari dei pazienti. In tempo di Covid questa è l’unica modalità possibile per comunicare. Un mezzo tecnologico sostituisce la presenza fisica, e le parole con cui una notizia tragica viene comunicata possono fare la differenza sul futuro di chi ha subito il lutto. ComuniCovid è un’iniziativa del progetto di ricerca “Intensiva 2.0”, ideato nel 2012 dal rianimatore piacentino Giovanni Mistraletti. Nel 2018 il progetto ha vinto il premio nazionale per l’umanizzazione della medicina intitolato al giornalista Tiziano Terzani. Mistraletti è anche membro del gruppo di studio per la bioetica della Siaarti, Società italiana di anestesia analgesia rianimazione e terapia intensiva. Lo abbiamo incontrato a Piacenza, dopo una notte di guardia in Terapia Intensiva Covid all’ospedale San Carlo di Milano.

Come è la situazione attuale a Milano dopo il periodo in zona rossa?
È stato raggiunto il picco degli accessi in ospedale, e stiamo assistendo all’onda lunga delle persone che peggiorano nel tempo a causa dell’evolversi di polmoniti gravi. Ora prevediamo una riduzione dei contagi, che forse aumenteranno nuovamente fino a febbraio 2021.

Come è stata questa seconda ondata?
È stata diversa perché era attesa ed è stata più difficile da organizzare perché alcune risorse che c’erano state a marzo-aprile sono venute meno, una di queste era l’adrenalina per gli operatori sanitari. È stato difficile trovare nuove energie, ed è stato difficile far fronte alle mancanze di programmazione emerse.

Nel 2012 lei ha ideato il progetto “Intensiva 2.0” nel quale si inserisce “ComuniCovid”, un decalogo di regole per comunicare con i familiari dei pazienti in contesto di isolamento. Quali sono le regole da seguire?
 “Intensiva 2.0” vuole migliorare la comunicazione fra operatori e familiari. Attraverso brochure e poster cerchiamo di far capire cos’è la terapia intensiva. Con l’avvento della pandemia non è più possibile accogliere i familiari, quindi abbiamo creato un gruppo di lavoro per definire regole da consigliare ai medici e agli infermieri per comunicare in modo efficace in un contesto di completo isolamento. Il progetto di chiama “ComuniCovid” e la regola principale è dedicare un tempo adeguato, perché il tempo di comunicazione è già tempo di cura. Nell’informare i familiari occorre coniugare verità e rassicurazione. Non servono monologhi. Inoltre, quando un medico parla al familiare di un paziente deve sincerarsi della comprensione dell’interlocutore: questa è buona comunicazione.  La modalità deve essere condivisa con la direzione sanitaria, si può utilizzare il telefono, la videochiamata o se i familiari preferiscono anche l’email. Nel progetto abbiamo indicato anche quali sono le frasi e le parole più idonee per comunicare spiacevoli notizie.

Gli operatori sanitari non hanno ancora smaltito lo stress della prima ondata. A tal proposito avete raccolto le loro testimonianze. Qual è denominatore che accomuna i racconti?
Durante la prima ondata, con il Progetto “Scriviamo la storia” abbiamo promosso una raccolta di 160 storie di medici, infermieri e operatori sanitari di area critica che hanno raccontato la loro esperienza. Dal loro vissuto è nato anche il documento della Società italiana di medicina narrativa denominato “R-esistere”, pubblicato di recente dall’Istituto superiore di Sanità. Quello che emerge soprattutto è la sopraffazione. La prima ondata di Covid è stata una situazione incredibile e imprevedibile. Ci siamo trovati a fronteggiare patologie che siamo abituati a curare, ma in numeri enormi da gestire. Ci sono stati problemi organizzativi, sovraccarico lavorativo e una preoccupazione alla quale non eravamo abituati: avevamo paura per noi stessi e per le nostre famiglie. E inoltre dovevamo indossare dispositivi pesanti. E poi la dimensione relazionale stravolta. Raramente nella storia si sono verificati eventi in cui è stato impossibile stare vicino alle persone amate nel momento della loro morte. Medici e infermieri hanno gestito anche questa mancanza ed è stato riportato da tutti come una dimensione straziante”.

Cosa lascia questa “dimensione straziante”?
Lascia ferite e cicatrici difficili da rimarginare. Lascia una sensazione di ineluttabilità. Abbiamo fatto il nostro lavoro di professionisti, non eroi. Abbiamo fatto del nostro meglio cercando di erogare le cure più efficaci senza perdere una dimensione umana messa seriamente alla prova. E poi lascia una grande sensazione di impotenza: la mortalità degli intubati è del 40 percento. È drammatico sapere che 2 su 5 non ce la faranno. È una realtà che si deve accettare, ma è estremamente frustrante.

Perché ha scelto questo mestiere?
Forse perché sono un po’ idealista e volevo salvare la vita alle persone. E poi è il mestiere più bello del mondo. Curiamo la fase più grave di tutte le patologie, è un lavoro molto difficile e molto affascinante.

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