Il mondo ha sete di acqua: così la tecnologia prova a sconfiggere la siccità

21 Marzo 2024 05:00

Domani, 22 marzo , si celebra, come ogni anno, il World Water Day, la Giornata mondiale dell’acqua, istituita dalle Nazioni Unite nel 1992 per sensibilizzare sul valore di questa preziosa risorsa.
Ma se, allora, la prima preoccupazione era che sempre più persone potessero accedervi, a distanza di oltre trent’ anni le problematiche si sono moltiplicate, legate ad inquinamento, cambiamenti climatici e scelte umane.
Resta il fatto che le persone che non hanno accesso all’acqua potabile sono sempre tantissime: due miliardi, purtroppo destinate aumentare.
Ma anche nelle zone più sviluppate c’è carenza. Ad esempio, in Italia.
Neve e pioggia sono cadute, ma non a sufficienza. E soprattutto senza un’adeguata rete di invasi che potesse accumularle e conservarle in vista dei mesi estivi. Con l’arrivo della stagione calda, il manto nevoso che si è creato all’inizio di marzo è destinato a sciogliersi rapidamente e sui rilievi mancheranno importanti serbatoi di acqua.
L’Italia rimane, insomma, un Paese in forte stress idrico. Il Centro internazionale di monitoraggio ambientale denunciava a febbraio una carenza di neve su Alpi e Appennini del 63%, mentre le regioni del Centro e del Sud, in particolare Sicilia e Sardegna, rimangono tuttora a secco.
La siccità oggi non è più un’emergenza, ma un fenomeno strutturale che richiede strategie di lungo periodo. Secondo la Fao è causa del 34% di tutte le catastrofi naturali che si verificano a livello globale. Nel 2021 l’Istat fotografava un’Italia con 286 giorni senza pioggia all’anno, un dato in costante crescita dal 2015. Ma se le precipitazioni sono in calo, dobbiamo renderci indipendenti da loro.
Oggi le soluzioni più conosciute sono due: la desalinizzazione e il riciclo delle acque reflue
A livello globale, si contano oltre 16mila desalinizzatori, di cui i più noti sono quelli di Barcellona e in Israele. Questa tecnologia, però, ha preso meno piede in Italia e richiede un dispendio di energia ancora troppo elevato, almeno fino a quando non saremo in grado di alimentarla unicamente a rinnovabili.
Siamo invece più preparati sulla seconda opzione, soprattutto in Emilia-Romagna, dove un progetto dell’Università di Bologna e di Enea sulla depurazione delle acque di scarto ha permesso di coprire il 70% del fabbisogno idrico regionale, con vantaggi soprattutto per l’agricoltura.
E proprio da questo settore, che la Fao indica come il responsabile della maggior parte del consumo di acqua destinata all’uomo, ha senso ripartire per cambiare il nostro rapporto con le risorse idriche.
In aiuto viene appunto la tecnologia, con sistemi di intelligenza artificiale, internet of things e droni che permettono di gestire meglio l’irrigazione dei campi. Due sono le direzioni verso cui si muovono: la valutazione dell’umidità del terreno, attraverso sensori meteorologici e di suolo, e il monitoraggio costante dello stato di salute della pianta, per poter intervenire tempestivamente e ridurre l’uso di fertilizzanti. Strumenti che permettono di rendere l’irrigazione più efficiente e mirata, abbattendo gli sprechi e migliorando la produzione.
Ma non è tutto. Negli ultimi anni, sempre più ricercatori stanno cercando un metodo rapido, efficace a basso dispendio energetico per estrarre l’acqua proprio da quel luogo da cui non proviene più: il cielo. O meglio, l’aria.
Diversi sistemi sono già in uso nei Paesi africani minacciati dalla desertificazione che avanza, ma alcuni nuovi progetti sembrano aver compiuto importanti passi avanti. Nella Death Valley, un team internazionale è riuscito a far funzionare il proprio impianto grazie alla luce solare. All’Università del Texas, invece, hanno impiegato un materiale innovativo che raccoglie l’umidità atmosferica e rilascia acqua potabile. È l’idrogel igroscopico: ne basta un chilo per ottenere 7 litri di oro blu.

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