Fran Lebowitz (e Martin Scorsese): una vita (divertente) a New York
Redazione Online
|4 anni fa


Tra queste c’è la Città, proprio nel senso woodyalleniano di “New York era la sua città, e la sarebbe sempre stata”. La città dove succede sempre qualcosa, quella piena di targhe per terra che guarda solo lei: “fai finta che sia una città”, dice nel titolo, un luogo dove abitano altre persone oltre te, non è stupefacente? La città di otto milioni di persone dove nessuno si può permettere di abitare: “Non sai rispondere quando ti chiedono perché ci vivi, ma disprezzi chiunque non abbia il coraggio di farlo”.
Questo è il tono delle sei puntate, pungente e spigoloso e libero, un tono che la accompagna leggero nella New York pre-pandemica, nella metro, per strada, nelle librerie, nelle biblioteche, e c’è pieno di gente e nessuno ha la mascherina e ti sembra di respirare insieme a lei quell’odore di metropoli, quella puzza di gente ammassata nella metropolitana, e ti manca tutto, e soprattutto ti manca ridere insieme ai tuoi amici, come fa lei insieme a Scorsese, che ride per tutte e sei le puntate, e che è suo amico da così tanto tempo che nessuno dei due si ricorda precisamente da quando (“Ci saremo conosciuti a una festa, io vado a molte più feste di lui ed ecco perché lui ha fatto molti film e io ho scritto pochi libri”).
Questo è il tono delle sei puntate, pungente e spigoloso e libero, un tono che la accompagna leggero nella New York pre-pandemica, nella metro, per strada, nelle librerie, nelle biblioteche, e c’è pieno di gente e nessuno ha la mascherina e ti sembra di respirare insieme a lei quell’odore di metropoli, quella puzza di gente ammassata nella metropolitana, e ti manca tutto, e soprattutto ti manca ridere insieme ai tuoi amici, come fa lei insieme a Scorsese, che ride per tutte e sei le puntate, e che è suo amico da così tanto tempo che nessuno dei due si ricorda precisamente da quando (“Ci saremo conosciuti a una festa, io vado a molte più feste di lui ed ecco perché lui ha fatto molti film e io ho scritto pochi libri”).
Ma il raggio delle sue amicizie comprende Charles Mingus, Toni Morrison, Andy Warhol, Robert Mattlethorpe, quindi perché stupirsi. “Io odio i soldi ma amo le cose. Se odi i soldi e odi le cose va tutto bene perché sei il Dalai Lama. Io non amo lavorare, a me piace stare sdraiata a leggere, che non è una professione. Comprare una casa al di sopra delle mie possibilità mi ha fatto sentire molto americana”. Lebowitz, racconta a un basito Spike Lee, era in prima fila al primo incontro tra Alì e Fraser, “perché una mia amica conosceva Frank Sinatra”, ha rifiutato di andare a una cena in onore di Leni Riefenstahl alla quale erano invitate 12 persone, e quando parla del #metoo dice “I primi 40 che hanno beccato, li conoscevo tutti”.

“Noi siamo arrivati a New York perché eravamo gay, quindi c’era alta densità di gay arrabbiati in giro, cosa che fa sempre bene a una città, e che poi diventarono gay felici, perché New York era divertente”: Fran Lebowitz, che ha 70 anni e vive di parole, che trova già abbastanza sfidante ritirare i vestiti dalla lavanderia senza minacciare o essere minacciata, che ama le feste e i bambini piccoli perché non sono mai noiosi, che baciava i libri quando le cadevano di mano, che è arrivata a New York a 18 perché voleva fare la scrittrice, che dice di vivere in uno stato di rabbia perenne, ha iniziato a lavorare sulle riviste recensendo film di serie B perché “cercavo qualcosa di divertente di cui scrivere”.




