Il disagio di una famiglia e le sue conseguenze in Piccole Umane Debolezze
Megan Nolan racconta una rinascita attraverso 240 pagine di Eros e Thanatos
Cecilia Pizzaghi
|1 settimana fa

Piccole Umane Debolezze è il libro servito dalla Pizzeria Letteraria- © Libertà/Cecilia Pizzaghi
Dai tempi del caos non si è visto che sangue. Si comincia e si muore nel sangue. Tu come credi di esser nato?
- Che per nascere occorra morire, lo sanno anche gli uomini. Non lo sanno gli Olimpici. Se lo sono scordato.
- Siamo cose feroci, noialtri immortali.
Lo scriveva Pavese in uno dei suoi Dialoghi con Leucò - un autore di un’epoca e una estrazione ben diversa da Megan Nolan. Eppure sintetizza alla perfezione il romanzo che l’irlandese ha pubblicato nel 2023. E mi sembra utile anche per farvi capire da subito che aria tira tra queste colonne.
Perché voglio inaugurare questa rubrica con un romanzo così brutale e spietato?
Perché sono un’amante dei libri, come li definisco io, presi male. Difficilmente vi consiglierò racconti allegri, storielle romantiche o grandi romanzi di formazione.
E quindi parlarvi di questo Piccole Umane Debolezze mi è utile anche per farvi cogliere al meglio il senso di questa rubrica (così da offrirvi un motivo per saltare a piè pari le prossime uscite): non sono un’esperta o un’accademica, amo leggere e condividere impressioni personali, dirette, sincere su libri da gustare, divorare o avanzare, proprio come una fetta di pizza.
Perciò, accomodiamoci a tavola.
Perché parlarvi di Piccole Umane Debolezze? Per farla breve, perché è uno di quei libri che mi ha sbrindellato le budella mentre lo leggevo, che trasuda quel sangue e caos di cui parlavano Eros e Thanatos all’inizio, che racconta una rinascita, attraverso 240 pagine di morte e dolore.
Ne parlo perché l’ho trovato simile ad Adolecence. Proprio lei, la serie strapremiata e strappalacrime sul ragazzino che fa fuori una sua compagna di classe e sulle conseguenze che la vicenda ha, non solo su di lui, ma anche sulla sua famiglia, sulla scuola e su chi gli stava attorno. E quindi, se Adolescence è riuscita a conquistare grandi e piccini, nonni, padri, madri, fratelli e single, forse anche il romanzo della Nolan (venuto prima della serie!) può riuscire a conquistare un pubblico così trasversale come quello che bazzica tra le pagine di questo giornale .
E poi ne parlo perché, essendo un libro, va parecchio più in profondità rispetto alla serie: parte dai giorni strazianti a ridosso della scomparsa di una bambina di tre anni e la scoperta di quello che sembra essere a tutti gli effetti uno strangolamento, per arrivare al fermo di un’altra bambina, di dieci anni, proveniente da una famiglia disastrata di immigrati irlandesi in una Londra degli anni ’90. Ma in realtà va parecchio più indietro, proprio in quella che potremmo definire la storia psicanalitica di questa disastrata famiglia.
Lucy, la presunta assassina, è infatti frutto di un amore adolescenziale - e forse, in quanto tale, ossessivo - tra Carmel e un ragazzo più grande. Tra flashback e confessioni, capiamo in fretta il trauma che si porta dietro questa Caramel: non ha mai accettato di essere stata scaricata dal partner, di essere rimasta incinta proprio della sua “crush delusionale” (un modo social per non usare la parola stronzo), e di essere diventata madre. Carmel viveva a Waterford, una piccola cittadina in Irlanda, insieme al fratello alcolizzato Richie, il padre dissociato John e la madre, afflitta da sindrome da crocerossina, Rose. Una famiglia in cui, in sostanza, i drammi personali vengono vissuti non in segreto, ma peggio: in silenzio, facendo finta di niente.
- Che per nascere occorra morire, lo sanno anche gli uomini. Non lo sanno gli Olimpici. Se lo sono scordato.
- Siamo cose feroci, noialtri immortali.
Lo scriveva Pavese in uno dei suoi Dialoghi con Leucò - un autore di un’epoca e una estrazione ben diversa da Megan Nolan. Eppure sintetizza alla perfezione il romanzo che l’irlandese ha pubblicato nel 2023. E mi sembra utile anche per farvi capire da subito che aria tira tra queste colonne.
Perché voglio inaugurare questa rubrica con un romanzo così brutale e spietato?
Perché sono un’amante dei libri, come li definisco io, presi male. Difficilmente vi consiglierò racconti allegri, storielle romantiche o grandi romanzi di formazione.
E quindi parlarvi di questo Piccole Umane Debolezze mi è utile anche per farvi cogliere al meglio il senso di questa rubrica (così da offrirvi un motivo per saltare a piè pari le prossime uscite): non sono un’esperta o un’accademica, amo leggere e condividere impressioni personali, dirette, sincere su libri da gustare, divorare o avanzare, proprio come una fetta di pizza.
Perciò, accomodiamoci a tavola.
Perché parlarvi di Piccole Umane Debolezze? Per farla breve, perché è uno di quei libri che mi ha sbrindellato le budella mentre lo leggevo, che trasuda quel sangue e caos di cui parlavano Eros e Thanatos all’inizio, che racconta una rinascita, attraverso 240 pagine di morte e dolore.
Ne parlo perché l’ho trovato simile ad Adolecence. Proprio lei, la serie strapremiata e strappalacrime sul ragazzino che fa fuori una sua compagna di classe e sulle conseguenze che la vicenda ha, non solo su di lui, ma anche sulla sua famiglia, sulla scuola e su chi gli stava attorno. E quindi, se Adolescence è riuscita a conquistare grandi e piccini, nonni, padri, madri, fratelli e single, forse anche il romanzo della Nolan (venuto prima della serie!) può riuscire a conquistare un pubblico così trasversale come quello che bazzica tra le pagine di questo giornale .
E poi ne parlo perché, essendo un libro, va parecchio più in profondità rispetto alla serie: parte dai giorni strazianti a ridosso della scomparsa di una bambina di tre anni e la scoperta di quello che sembra essere a tutti gli effetti uno strangolamento, per arrivare al fermo di un’altra bambina, di dieci anni, proveniente da una famiglia disastrata di immigrati irlandesi in una Londra degli anni ’90. Ma in realtà va parecchio più indietro, proprio in quella che potremmo definire la storia psicanalitica di questa disastrata famiglia.
Lucy, la presunta assassina, è infatti frutto di un amore adolescenziale - e forse, in quanto tale, ossessivo - tra Carmel e un ragazzo più grande. Tra flashback e confessioni, capiamo in fretta il trauma che si porta dietro questa Caramel: non ha mai accettato di essere stata scaricata dal partner, di essere rimasta incinta proprio della sua “crush delusionale” (un modo social per non usare la parola stronzo), e di essere diventata madre. Carmel viveva a Waterford, una piccola cittadina in Irlanda, insieme al fratello alcolizzato Richie, il padre dissociato John e la madre, afflitta da sindrome da crocerossina, Rose. Una famiglia in cui, in sostanza, i drammi personali vengono vissuti non in segreto, ma peggio: in silenzio, facendo finta di niente.

Quando la sua gravidanza divenne non più ignorabile, Carmel convinse - per non dire obbligò - la famiglia a trasferirsi a Londra, per scappare dalla vergogna e per avere una nuova occasione. Ma l’effetto ottenuto è un po’ quello di quando si mette della lacca sul legno marcio: nessun nuovo inizio, solo un inesorabile imputridimento interiore. Perché Rose, che per anni è stata al centro della vita della famiglia, portando a casa uno stipendio, cucinando, rassettando e prendendosi cura della piccola Lucy in “assenza” della madre, è morta un annetto prima dla tragedia attorno alla quale si snoda il romanzo. E “imputridimento” credo sia il termine più corretto da impiegare per descrivere quello che è successo alla famiglia dalla sua morte.
Perché cominciare da un libro così decadente per aprire una rubrica di Libertà? Perché, tra le altre cose, unisce due mondi che adoro, quello della narrativa contemporanea e quello del giornalismo: chi ci consente di dipanare questo complicato caso di cronaca e al tempo stesso ci offre una serie di sessioni terapeutiche a tu per tu con i tre parenti ancora in vita di Lucy è Tom, un giornalista ventisettenne, disposto a tutto pur di fare lo scoop della carriera. Mi ha ricordato un Chuck Tatum dipinto da Billy Wilder ne L’Asso nella Manica, solo più workaholic, più fluido e più narcisista.
E quindi parto da questo romanzo in cui la microstoria, anzi, microtragedia di questa famiglia alle prese con tre espressioni diverse di depressione (come vengono definiti dalla Nolan, “piccole umane debolezze”, nonché disturbi alimentari, alcolismo, sociopatia) si inietta in un quadro più ampio, sulle condizioni di quella classe all’estremità inferiore di questa forbice sociale sempre più larga in cui viviamo. Una classe sociale che sembra diventare visibile solo quando è invischiata in fatti violenti, scandalosi; una classe che sembra poter offrire solo ciò che riceve: rabbia e odio.
E quindi la tragedia di Lucy, mai voluta, mai accettata, mai amata, e pertanto cresciuta astiosa, iraconda, diventa una storia in miniatura di quella fetta di società di cui anche nel nostro paese sembriamo tanto avere paura: i più svantaggiati.
Ho cominciato questa rubrica parlando di Piccole Umane Debolezze perché non è solo un libro che mette a nudo personaggi in balia dei propri traumi (come del resto Megan Nolan aveva già fatto in un altro romanzo che adoro, Atti di Sottomissione), ma è anche un libro che parla di aporofobia, un concetto che spesso viene confuso con la xenofobia, e di cui credo sia sempre più importante parlare: l’avversione per i poveri.
Insomma se non sono riuscita fin qui a farvi capire che questo è un libro parecchio duro, vi dico che se Piccole Umane Debolezze fosse una pizza sarebbe una pizza cicoria, olive nere, acciughe e olio al peperoncino: una portata amara, ma al tempo stesso decisa e, spero, indimenticabile.

