Arriva Squid Game: l'atteso finale della serie tv di Netflix
Con la terza stagione si conclude la controversa fiction scritta, diretta e ideata dal regista sudcoreano Hwang Dong-hyuk
Fabrizia Malgieri
July 5, 2025|7 giorni fa

Una scena della terza stagione di "Squid Game"
«Non siamo cavalli. Siamo esseri umani». È con questa frase che Seong Gi-hun (o Giocatore 456, se preferite), protagonista di “Squid Game”, chiude un cerchio iniziato con la prima stagione sul gran finale della serie tv targata Netflix, giunta alla sua terza e ultima season. Ironico che parli di cavalli: proprio Gi-hun – scommettitore di cavalli, uomo che ha perso famiglia e soldi per inseguire il brivido del gioco d’azzardo, e costretto a partecipare ai “Giochi del Calamaro” per provare a cambiare la propria sorte – si trova ad essere il “cavallo” su cui qualcun altro scommette.
I cosiddetti Vip, ricchi annoiati da una vita fragorosamente agiata, che trovano conforto e piacere nel vedere chi, meno fortunato di loro, lotta strenuamente per un montepremi multimiliardario – e salvare la propria vita. Uomini e donne disperati, sull’orlo della bancarotta, scommettitori incalliti – un problema, quello del gioco d’azzardo, che rappresenta una vera e propria piaga sociale, soprattutto nei Paesi asiatici – truffatori, strozzini, semplici esseri umani che hanno commesso errori nella propria esistenza: gente in bilico tra la vita e la disperazione, disposti ad annullarsi l’uno con l’altro per appagare la visione sadica di un gruppo di ricchi viziati e insoddisfatti – e nel frattempo sperare nel riscatto. Nulla di nuovo, direte voi, soprattutto perché “Squid Game” altro non è che una versione aggiornata e contemporanea dei combattimenti tra i gladiatori dell’Antica Roma: uomini e donne costretti ad abbandonare a poco a poco la propria umanità per semplice istinto di sopravvivenza – armati di coltelli, brutalità e mancanza di anima.
I cosiddetti Vip, ricchi annoiati da una vita fragorosamente agiata, che trovano conforto e piacere nel vedere chi, meno fortunato di loro, lotta strenuamente per un montepremi multimiliardario – e salvare la propria vita. Uomini e donne disperati, sull’orlo della bancarotta, scommettitori incalliti – un problema, quello del gioco d’azzardo, che rappresenta una vera e propria piaga sociale, soprattutto nei Paesi asiatici – truffatori, strozzini, semplici esseri umani che hanno commesso errori nella propria esistenza: gente in bilico tra la vita e la disperazione, disposti ad annullarsi l’uno con l’altro per appagare la visione sadica di un gruppo di ricchi viziati e insoddisfatti – e nel frattempo sperare nel riscatto. Nulla di nuovo, direte voi, soprattutto perché “Squid Game” altro non è che una versione aggiornata e contemporanea dei combattimenti tra i gladiatori dell’Antica Roma: uomini e donne costretti ad abbandonare a poco a poco la propria umanità per semplice istinto di sopravvivenza – armati di coltelli, brutalità e mancanza di anima.

Il mondo di “Squid Game”, già oscuro nelle prime due stagioni, diventa ancora più cupo in questo terzo attesissimo atto, disponibile sulla piattaforma over-the-top dallo scorso 27 giugno: il buio dell’anima prende il sopravvento su concetti come solidarietà, umanità, empatia, al punto che gli unici personaggi in grado di provare ancora emozioni fortemente umane vengono eliminati uno ad uno dalle diverse prove, un po’ come le tessere di “Indovina chi?”. Figurine che si stagliano sui mega schermi del gioco del calamaro -controllato e manovrato ad arte dal Front-Man, il mastro-burattinaio di questo circo enorme, kitsch e mortale – dove, una dopo l’altra, si spengono, vengono disabilitate: come marionette mosse dal potere (dei soldi), vengono ridotte a semplici avatar, la cui vita viene completamente annullata. Se il primo atto di “Squid Game” ci raccontava l’eterna lotta di classe, quella tra “ricchi” e “poveri” (mi si perdoni la semplificazione), e fungeva da riflessione potente su concetti a lungo esplorati da tanto cinema asiatico – non ultimo quello del regista Bong Joon-ho, in particolare con “Parasite” e ancor prima con “Snowpiercer” – qui il discorso diventa ancora più energico, critico, disilluso: assume contorni ancor più politici, dove la dicotomia si sposta verso scenari che vede contrapposti Oriente e Occidente. Non è un caso che tre Vip su quattro presenti ad assistere come spettatori alla carneficina tra i concorrenti, siano caucasici e occidentali.

Ma “Squid Game 3” va ancora oltre, scava nelle viscere dell’essere umano, scovando i suoi lati più oscuri; c’è una frase che Front-Man pronuncia, in una chiacchierata con Giocatore 456 durante uno degli ultimi episodi e a seguito di alcuni importanti avvenimenti all’interno del gioco, che arriva dritta al petto, e che suona all’incirca così: «Hai ancora fiducia negli esseri umani, sei ancora convinto che l’umanità può e merita di essere salvata?». La disillusione di Front-Man nei confronti del genere umano tenta di scalfire fino in fondo l’animo di Gi-hun: come un diabolico tentatore cerca in tutti i modi di trascinarlo nell’abisso, portarlo lontano dalle sue buone intenzioni, dissuaderlo che l’umanità tutta resta insalvabile dai suoi peccati.
C’è qualcosa che trasuda “Il Settimo Sigillo” di Ingmar Bergman: avete presente quando Antonius e La Morte giocano instancabili la loro partita a scacchi? Front-Man e Gi-hun, seduti l’uno di fronte all’altro, si studiano e provano a capire se e in che modo l’avversario cederà o farà la prossima mossa. Perché l’intera stagione di “Squid Game 3” può riassumersi perfettamente in questa sequenza, nella lotta tra bene e male che si consuma strenuamente su un tavolo da gioco. Dove, però, a prevalere è il più totale libero arbitrio: se è vero che questo concetto è reso palese sin dai primi istanti di “Squid Game” – i partecipanti al gioco non sono costretti, ma hanno scelto liberamente di prendervi parte – in questa terza stagione questo elemento diventa pilastro costitutivo dell’intero impianto narrativo. C’è la libera scelta di vivere, di uccidere, di sacrificarsi, di diventare brutali: nonostante i fili siano tenuti insieme da Front-Man, per appagare la visione di un pubblico pagante (noi compresi, in fin dei conti, che non siamo disposti a distogliere lo sguardo anche nei momenti più atroci di questa terza stagione), tutto ciò che accade avviene per scelta degli stessi partecipanti. “Squid Game” è un gioco democratico, dove tutto viene lasciato nelle mani dei giocatori stessi: sono loro a decidere se e quando fermarsi, eppure il brivido di spingersi oltre i nostri limiti umani – andando anche contro quelle che sono le nostre regole morali – ci porta a compiere l’inspiegabile. Trasformandoci, senza volerlo, in esseri disumani. Cala il sipario su “Squid Game”, serie controversa di cui in pochi hanno voluto cogliere la sua ruvidità: Hwang Dong-hyuk non vuole giudicarci, ma fa sì che diventiamo spettatori di noi stessi, imparando a guardarci dentro. Come ci saremmo comportati noi? Sarebbe prevalsa l’umanità o l’istinto di sopravvivenza? “Squid Game” è metafora della vita, la nostra, di cui restiamo gli unici e soli artefici – proprio grazie al democratico libero arbitrio.
