Baracche verso lo sgombero. "Non sappiamo dove andare"
Nella cosiddette "favelas" di via Nino Bixio è comparso un cartello che impone l'evacuazione. Ma non è firmato, e chi da anni sopravvive nelle boschine lungo il Po ha paura

Elisa Malacalza
|1 mese fa

Alcuni cagnolini che vivono nelle baracche - © Libertà/Elisa Malacalza
Quel cartello bianco plastificato con scritte in rosso e in nero, inchiodato da una decina di giorni sul muro esterno giallo di una delle palazzine occupate dai senzatetto, toglie il sonno a chi vive nelle baracche di via Nino Bixio. È un avviso di sgombero; ma non ha firma, né timbro. «Sono venuti e lo hanno appeso», dice chi lì ci vive - anzi, sopravvive - tra la ferrovia, il ponte sul Po che porta a San Rocco, un bosco di bambù, i rifiuti e la vista all’orizzonte su palazzo Farnese.

“Si chiede agli occupanti gentilmente di sgomberare l’area entro mercoledì 15 ottobre 2025. La merce rimasta verrà smaltita”, è il messaggio appeso alle pareti della palazzina dove, quando sono stati fatti in passato altri sgomberi, a ruota sono entrati altri “inquilini”. «Io ho 19 anni. Un lavoro non lo trovo finché non ho una casa, o un documento non provvisorio come l’attuale», spiega un ragazzo con gli occhi azzurri, originario della Romania, chiedendo di restare anonimo. Accanto a lui, una ragazza, più giovane: ha un volto da bambina. E nel cortile una macchina impolverata dalla sabbia del Po, e che sembra più usata da qualcuno per dormire: è una specie di casa.
Il 15 ottobre comunque è passato come una piena del fiume. E non è successo niente. Ma il cartello resta e ogni notte loro – impossibile dire quanti siano, è un formicaio di vite – la passano nell’ansia dell’attesa, pensando come un’ossessione a “Se arrivano cosa facciamo?”.
Ma chi arriva? «Non lo sappiamo, ci hanno detto che vengono domani, lunedì. Così ci hanno detto».

Mihai Costantin, un sessantenne che parecchi problemi di salute, vive qui addirittura da undici anni. Ma com’è possibile vivere in una baracca per undici anni? «Eppure...». Poi piange: «Il problema per me sono soprattutto i miei cani, che sono la mia famiglia». Sono quattro, piccoli. «Figli».
Il figlio di Mihai si chiama come lui, è nato nel ‘97 e lo ha raggiunto da Bucarest, in Romania, nel 2019: «Ho iniziato a lavorare, ma in nero. E sono caduto da un’impalcatura. Così sono disabile ora, fatico a camminare, però posso ancora lavorare, certo. Ma se sei senza fissa dimora chi ti assume? Vorrei fosse chiaro che qui, tra le baracche lungo il Po, non ci sono ladri. Siamo solo poveri», racconta sconfortato.
Ad aiutare i Costantin ci sono anche alcuni commercianti del centro e cittadini. Lo fanno da anni: «Abbiamo visto Mihai fare l’elemosina, ad oggi è praticamente il suo unico sostentamento. Noi lo chiamiamo Michele... Ha avuto bisogno di cure; è stato ricoverato in ospedale a Piacenza, ha gravi problemi all’anca, il diabete e ha avuto una polmonite. Non può reggere a uno sgombero. Noi gli abbiamo preso i farmaci, cerchiamo di aiutare anche i cagnolini... Ma contro uno sgombero non possiamo fare nulla», raccontano tre cittadine, piacentine, che hanno preso a cuore questa famiglia.

Dove finiranno, gli sgomberati? «Io penso di andare sotto i portici di piazza Cavalli, a chiedere aiuto», racconta Michele. «Ci offrono alloggi temporanei, dormitori, ma i cani? Dove lasciamo queste povere bestiole? Per noi sono amore, affetto contro la solitudine. E fanno anche la guardia, perché comunque viviamo senza porte e finestre». Arriva anche il freddo e sembra quello di Bucarest: «Ci scaldiamo con l’alcol. Puliamo ogni mattina, ma i topi arrivano lo stesso. Ci servirebbe un posto dove stare, dove poter curare mio padre, ma dove possano anche stare i cani, per favore. Non sappiamo dove sbattere la testa», spiega il più giovane dei Constantin. Poi caricano i cagnolini nel cestino della bicicletta e vanno verso il centro. «Con l’elemosina almeno, forse, anche oggi mangeremo».


