Manni sul set di Argento. “Accanto a Von Sydow davo la caccia al killer”

Per questo primo viaggio in compagnia di Cinepop, la macchina del tempo ci riporta indietro di 22 anni. Quando al cimitero monumentale di Torino, sotto l’occhio del maestro Dario Argento, c’era anche Mino Manni nella squadra anti-mostro di “Non ho sonno”. L’attore, regista e direttore del Teatro Verdi di Fiorenzuola apre il cassetto dei ricordi mentre si trova in Sicilia a girare “Eterno visionario”, il nuovo film di Michele Placido.
Dopo Vittorio Fanfoni, poliziotto in “Profondo rosso”, un altro attore piacentino scelto da Argento per smascherare il colpevole. Ricorda l’incontro con il nume tutelare del giallo all’italiana?
«Conoscevo la responsabile casting di “Non ho sonno” e ci fu il provino con l’assistente di Argento. Poi incontrai finalmente Dario: è stata una chiacchierata per me indimenticabile, a tu per tu, senza cineprese o macchine fotografiche. Parlammo a lungo del mio lavoro e della mia tournée teatrale di quel periodo, era il 2001. Evidentemente filò tutto liscio perché poco dopo mi ritrovai sul set. Era un sogno che si avverava, avevo cercato io quell’incontro, sono sempre stato fan sfegatato di Argento. Oggi posso dire che è stata un’esperienza potente, divertente, per certi versi irripetibile».
Si è divertito a dare la caccia a uno spietato serial killer, tra l’altro con lo zampino – in fase di sceneggiatura – di Carlo Lucarelli?
«Pazzesco. Ho girato per tre giorni a Torino, nel film mi aggiro per il cimitero monumentale con due volti mitici del cinema come Max Von Sydow, il detective in pensione, e Rossella Falk, la madre del principale sospettato».
Sulle tracce dell’assassino c’era pure Paolo Maria Scalondro, ovvero il commissario Manni.
«Sì, una curiosa omonimia!»
Argento girò un thriller notturno e iperviolento, scandito dalle musiche dei Goblin.
«Sergio Stivaletti, autentico genio degli effetti speciali, aveva ricreato una testa sgozzata che spruzzava sangue, sembrava vera. Argento era caricatissimo e ispirato, non stava mai fermo: alla controfigura in guanti neri che doveva aggredire una ragazza in auto, lui urlava di essere “più feroceeee”. Si arrabbiò con i curiosi che, ai lati del set, commentarono le incertezze della comparsa. Ad un certo punto, il regista si calò nei panni del killer. Era insomma un ciclone di energia. Quel giorno c’era pure Gabriele Lavia. La scena venne benissimo».
Con Von Sydow come andò?
«L’ho visto stare sul set anche quando non recitava. Trovai il coraggio di avvicinarlo, gli augurai “Buona domenica” e lui mi rispose cordialmente in italiano. Con totale umiltà prendeva posto accanto ad Argento per seguire le riprese. Dario era molto tenero con il suo attore protagonista, lo coinvolgeva sempre».


E con Lavia e la Falk?
«Lavia, che mito! È stato mio ospite al teatro di Fiorenzuola, ma sul film di Argento ci eravamo solo incrociati. La Falk mi colpì per la sua figura meravigliosa, una presenza davvero di altri tempi».
Vide il film al cinema a Piacenza?
«Quando “Non ho sonno” uscì nelle sale ero in tournée, entrai nella sala più vicina al teatro a godermi il film, però non ricordo la città».
Con Dario Argento vi siete più incrociati?
«L’ho rivisto nel foyer del teatro di Rimini, io avevo un ruolo in “Irma la dolce” e lui era venuto ad applaudire la protagonista Stefania Rocca prima di sceglierla per “Il cartaio” nel 2003. Poi l’ho incontrato a una serata al cinema Farnese di Roma organizzata per il restauro di “Opera”, girato a Parma ».
“Non ho sonno” è stata la sua unica esperienza horror?
«No. Ho interpretato un pedofilo pazzo nel corto “The tale of the idiot” di Seth Morley, mentre nel film ad episodi “P.O.E. Poetry of Eerie” ero nel segmento realizzato da Giuliano Giacomelli dedicato a Berenice. Circolano soprattutto all’estero».
Che fatica realizzare oggi film di genere in Italia…
«È vero, il nostro cinema ha perso smalto. Eppure io continuo ad essere attratto dai temi forti. Per questo ora prediligo il teatro, propongo Fëdor Dostoevskij, recupero “I demoni”. Anche da spettatore non mi piacciono le cose edulcorate: l’arte deve spiazzare, emozionare, seminare dubbi. Ecco, aveva ragione Argento quando sul set urlava quei “feroceeee” a squarciagola».
Da spettatore come si avvicinò all’horror e al thriller?
«Dalla porta principale! Il primo ricordo va subito a “Shining” di Stanley Kubrick. Restando in zona Argento, invece, rivedo “Profondo rosso” appena posso, in sala quando ci sono le riedizioni. Adoro quel giallo così moderno e visionario, i rimandi al cinema di Michelangelo Antonioni e ai quadri di Edward Hopper, con lo spettatore che finisce per identificarsi nell’assassino. E la paura costruita sull’attesa. Adoro i film italiani di genere, confezionati da grandi maestri troppo spesso bistrattati in patria».
Ribaltiamo le prospettive. Manni regista che ruolo affiderebbe ad Argento attore?
«Sicuramente rimarrei dalle parti di Shakespeare. Qualche anno fa Dario sarebbe stato un formidabile Macbeth, oggi lo vedo nei panni di un Re Lear però folle e horror. Come protagonista di “Vortex” di Gaspar Noè nel 2021, Argento mi ha fatto impazzire».
Ora di nuovo diretto da Placido, dopo “Il grande sogno” del 2009.
«Interpreto lo scrittore Massimo Bontempelli, amico di Luigi Pirandello che avrà il volto di Fabrizio Bentivoglio. Sono felice di lavorare ancora con Placido, un artista coraggioso che – dopo il successo mondiale de “La piovra”- per il suo esordio da regista ha girato “Pummarò” sul tema dell’immigrazione. Ai set di Alessandro D’Alatri, Argento e Marco Bellocchio aggiungo quest’altra eccezionale avventura».
Dalla sua passione per le “favole nere” è nato un seminario-laboratorio in corso a Milano…
«È un progetto che ho molto a cuore e sta avendo ottimi riscontri allo Spazio Lambrate. Ho sposato il cinema di Argento e la letteratura di Edgar Allan Poe. Alla fine ci sarà un saggio teatrale con gli allievi. Ogni sabato propongo la filmografia argentiana da “L’uccello dalle piume di cristallo” a “Tenebre”, senza scordare “Due occhi diabolici”, pellicola che Dario realizzò con George A. Romero e ispirata al geniale scrittore di Boston. Mi piace proporre questi classici ai ragazzi, proiettarli sul grande schermo al buio e in religioso silenzio, proprio come in sala. Guai a vederli sul telefonino o censurati alla tv, sarebbe un delitto».

di Michele Borghi

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