Piacenza tra dolore e speranza piange i suoi morti ma non si arrende
18 Marzo 2020 14:07
Ci sono immagini che restano impresse. Come quelle che arrivano nel silenzio della notte. Davanti all’ospedale c’è un’ambulanza, sulla barella, sotto all’involucro di biocontenimento è distesa una persona colpita da una malattia infettiva molto contagiosa, il Coronavirus. Gli encomiabili medici e infermieri hanno preparato il paziente mentre i volontari sono pronti per trasportarlo in un altro ospedale. Lontano dalla sua città e dalla sua famiglia.
Un mese fa vivevamo gli ultimi giorni in cui Coronavirus era qualcosa che riguardava solo la Cina. Non sapevamo che uno tsunami era pronto a travolgerci. Dal 21 febbraio, giorno in cui è stato scoperto il Paziente1 a Codogno, il virus ha attaccato più di 26mila italiani, tra loro 1.200 piacentini il cui Covid è accertato dal tampone, tanti altri sono a casa con la febbre senza sapere. Le sirene delle ambulanze sono un inquietante e costante sottofondo. Ad oggi nel nostro territorio il virus ha spento 189 vite. Se non fosse chiaro, 189 persone sono morte. Una strage. E pensare che all’inizio si era parlato di una semplice influenza.
Coronavirus è pericoloso per gli anziani ma a portare a casa il killer possono essere figli e nipoti. La fascia più colpita nel Piacentino è quella compresa tra 41 e 64 anni, il 36 percento del totale. Chi non ha ancora raggiunto i 40 anni e si sente inattacabile, faccia attenzione, perchè in ospedale non ci sono solo gli anziani.
La tranquilla provincia di Piacenza, con le sue colline da cartolina, non avrebbe mai immaginato di potersi trasformare in uno scenario di guerra in cui il nemico è invisibile e si insinua nel familiare o nell’amico. In prima linea a combatterlo ci sono medici e infermieri con la loro professionalità. Ci raccontano che negli ospedali, trasformati in campi di battaglia, le gerarchie non contano più. Tutti fanno tutto. Purtroppo però non sono immuni e si ammalano anche loro. E la colpa è di altri due nemici che si uniscono al virus, si chiamano menefreghismo e sottovalutazione. Ai piacentini e agli italiani questa volta non è richiesto di imbracciare un’arma e catapultarsi centinaia di chilometri di distanza al gelo e con un rancio scarso, è richiesto solo di restare a casa, togliere le scarpe delle mille corse quotidiane e infilare le pantofole salvo ragioni di lavoro, salute o necessità. Restare a casa. Un mantra insieme a lavarsi le mani spesso e mantenere un metro di distanza: sono le tre armi dei cittadini contro il nemico e l’unico modo per aiutare i medici a continuare a curare i pazienti più gravi.
“I solchi in faccia provocati dalle mascherine non sono pari ai solchi nell’anima che questa emergenza ha lasciato”: parole pronunciate dall’infermiera Francesca Gueli stremata dopo l’ennesimo turno in corsia.
Non serve a niente commuoversi sentendo queste testimonianze se poi non si riesce a resistere a un giretto fuori o al brivido di un acquisto quotidiano al supermercato. Provate poi a chiedere a chi ha perso una persona cara come ci si sente nel vederla andare via su un’ambulanza e doversi attaccare al telefono per sapere dove l’hanno portata, come sta. Non potergli tenere la mano negli istanti finali della sua vita. E come se non bastasse, a salutarlo per l’utlima volta (il decreto vieta i funerali) ci potranno essere solo pochissi familiari, a meno che non siano a loro volta in quarantena. Tutta questa sofferenza non avrà fine e continuerà a interessare sempre più persone se per un po’ non ci sacrifichiamo ed evitiamo i contatti. Se all’inizio non avevamo capito, adesso non possiamo più permetterci di non capire. Non possiamo far sentire soli i medici in questa battaglia, dobbiamo essere loro alleati.
Raffaella Bertè, direttore delle Cure palliative dell’ospedale di Piacenza, ha detto senza mezzi termini che continua a uscire come se ciò che succede intorno non lo riguardasse è “un farabutto senza cuore ed egoista”. Questo il pensiero di chi tocca con mano ogni giorno la sofferenza. Un pensiero schietto e condiviso dai colleghi e da tutti quei cittadini che con u po’ di sacrificio rispettano le regole.
Gli aspetti positivi della pandemia? Tante persone si sono rivelate molto generose e creative, questo ci aiuterà a rinascere. Siamo tornati a valorizzare la competenza e la scienza. Si è scoperto che i lavoratori producono anche dal divano di casa: si chiama smart working e senza spostamenti anche l’aria sembra addirittura più pulita. Adesso quando ci chiediamo “Come stai?”, avete notato che ascoltiamo con attenzione la risposta? Don Federico Tagliaferri, da casa con la febbre, ci ha detto che in futuro dovremo abbandonare quel senso di onnipontenza che il nostro tempo ci aveva consegnato senza ragione, la realtà dimostra che abbiamo bisogno gli uni degli altri. E se è vero che dopo questo inferno non saremo più come prima, speriamo almeno di essere migliori. Possiamo iniziare subito. Anche se fuori c’è il sole restiamo a casa.
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