Viaggio della Memoria, tappa a Ravensbruck con omaggio alla piacentina deportata

29 Febbraio 2024 04:08

La sveglia suona alle sei e un quarto in questo secondo giorno di Viaggio della Memoria. Alle sette e un quarto c’è da essere sul pullman, qualcuno ha dimenticato il telefono in albergo, il tempo dell’appello e si parte.
Per arrivare a Ravensbruck, dove circa semila persone finirono nella camera a gas, si attraversa una campagna bucolica: due ore di viaggio fra campi verdeggianti, boschetti di pini e betulle coi rami ricoperti di vischio, caprioli che osservano il traffico che scorre.
Anche il paese di Furstenberg e il lago Schwedt sembrano usciti da una cartolina.
Basta voltarla, però, per vedere il camino di Ravensbruck. Costruito dal 1936 al 1939, il campo vide transitare fra le 614 e le 871 italiane: tra di loro anche la piacentina Medarda “Medina” Barbattini, staffetta della 38esima brigata Sap, insieme a Rita Cervini, prima donna eletta in consiglio al Comune di Piacenza nel dopoguerra.
In loro omaggio, insieme a chi non ce l’ha fatta e lì ha lasciato la vita, i ragazzi delle scuole hanno deposto una novantina di garofani bianchi in diversi punti di Ravensbruck.

Il campo è costruito sulla falsariga di Dachau e accoglie nel suo inferno testimoni di Geova e deportate politiche, partigiane e oppositrici: in una parola, le asociali.
Camminiamo sulla ghiaia della lager strasse, i nostri passi fanno un rumore acuminato e croccante, mentre la guida ci racconta le storie delle donne e dei bambini che sono morti.
Della struttura originaria pochissimo è rimasto, perché nel dopoguerra quello che era il campo è diventato centro di esercitazione dell’esercito sovietico: le baracche sono state smantellate per usare il legno e gli altri materiali.

Immaginare non è sempre facile, ma qui ancora di più: forse per il freddo “che a lamentarsi qui ci si sente quasi in colpa”, dice un’insegnante, o per il silenzio o per quei garofani che punteggiano di bianco alcuni punti del campo.
Più tardi ci sarà la tappa a Rosenstrasse, il ricordo di chi ha cercato di opporsi alla deportazione e alla violenza, ma che non è servito a impedire che la storia facesse il suo corso; ricordarlo serve a noi per tenere la mente aperta e la schiena dritta.

Reportage di Elisabetta Paraboschi

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