“Murder most foul”, la struggente preghiera laica di Bob Dylan

Bob Dylan ha compiuto, il 24 maggio, 79 anni. Ma il regalo, lo ha fatto lui a noi: un’opera epica, un poema musicale di 17 minuti. “Murder Most Foul” (L’assassinio più immorale) è un titolo tratto dall’AMLETO di Shakespeare e il riferimento ad Amleto si accosta all’omicidio di John Fitzgerald Kennedy.

Io ne scrivo ora, dopo giorni (e notti) di ripetuti ascolti. Confesso, sin dalle prime righe, lo struggimento totale del mio cuore. Partiamo dal fatto che “Murder Most Foul” è un masterpiece di pura poesia. Ma è (soprattutto) una canzone, che tra l’altro lo porta per la prima volta in vetta alla classifica di vendite. Le parole di Dylan, che spesso è dedito al recitativo, sono esse stesse musica. La querelle tra musica e poesia è ancora aperta e sempre divide. Io l’ho risolta prima del meritatissimo Premio Nobel per la Letteratura che ha ricevuto nel 2016, la prima volta in cui ho appoggiato sul piatto THE FREEWHEELIN’ BOB DYLAN (1963). 57 anni dopo, in “Murder Most Foul” Dylan cita la morte di Kennedy (lo stesso anno in cui uscì il suo secondo album), tragedia di viltà che rappresenta un po’ tutti gli assassini, tutte le violenze e le morti. Da quell’episodio epocale, piomba sul mondo un’eterna disillusione, un morbo da cui non si guarisce. Dylan tesse un’infinita ragnatela invisibile e la sua voce ipnotica porta tutti attraverso 50 anni di storia e di musica, per le vie d’America e del mondo.
Nel testo, cita JFK come il re. Il parallelo con il dramma di Shakespeare è chiaro: la decapitazione del re come di una figura della perdita del senso, di un punto di riferimento e del padre, nel caso di Amleto. Una tragedia a cui non si riesce a dare una risposta, anche come ricaduta sul tempo presente.

Il giorno in cui hanno fatto saltare il cervello al re
Migliaia guardavano, nessuno vide nulla

Dylan racconta che dopo questa tragedia, invece di diventare adulta, l’America ha vissuto un’adolescenza illusoria. E in questa eterna adolescenza, cita la Beatlemania e Woodstock, ma parla anche di sé quando fa riferimento alla maschera imbiancata della ROLLING THUNDER REVUE (per chi fosse interessato, è ora disponibile su Netflix).

Cantante nero, clown bianco
meglio se non fate vedere la faccia dopo il calar del sole

Questo monito è attuale, considerando che Dylan posta su Instagram, a fine marzo e in piena emergenza coronavirus, scrivendo: “Saluti ai miei fan e a chi mi segue, con gratitudine per il loro sostegno e la fedeltà lungo gli anni. Questa è una canzone mai pubblicata, registrata qualche tempo fa, che potreste trovare interessante. State al sicuro, osservate le disposizioni (di sicurezza) e che Dio sia con voi”.

Questo il messaggio dell’uomo che ha snobbato gli accademici di Svezia, ma si è inchinato a Papa Wojtyla (a Bologna, nel 1997). E questo particolare, per me è qualcosa su cui ragionare.
Torna, nella disgustosa viltà dell’assassinio di Kennedy, un altro dei temi che stanno a cuore a Dylan: il tradimento. Penso al “vento idiota” che spazza via le certezze in un baleno, alle debolezze di uomo innamorato della moglie Sara, al tizio sanguinante che cammina lasciando impronte piene di sangue (BLOOD ON THE TRACKS, 1975). Penso a “Jokerman” (INFIDELS, 1983), su cui Joaquin Phoenix ha costruito il ruolo che gli ha fatto vincere l’Oscar. Penso a Dallas e al tradimento di un’intera nazione, a un regno rimasto senza re, senza destinazione. E percepisco echi di Crocifissione.

Sono sul sedile posteriore vicino a mia moglie
vado dritto verso l’aldilà
Mi chino a sinistra, ho la testa nel suo grembo
devo resistere, mi hanno portato in una specie di trappola
dove non chiediamo pietà e pietà non diamo

Hanno mutilato il suo corpo e hanno cavato fuori il suo cervello
Che altro potevano fare? Hanno fatto un cumulo di dolore
ma l’anima non c’era dove pensavano di trovarla
Per i cinquant’anni successivi hanno continuato a cercarla

L’aspetto intrigante di “Murder Most Foul” è che contiene una citazione musicale dopo l’altra – il mio amico e collega Paolo Vites ne ha estratte 82. Dylan cita Beethoven, il re con l’arpa e “Love Me Or Leave Me”, Tommy e Stevie Nicks. Il lungo elenco è come un mantra. Oltre alla musicalità delle citazioni, la lista di canzoni del patrimonio anglo-americano ha un senso filologico. L’ANTHOLOGY OF AMERICAN FOLK MUSIC, pubblicata nel 1952 (su cui un giovanissimo Dylan di sicuro ha speso il suo tempo), raccoglieva, guarda caso, proprio un’ottantina di canzoni, dalla musica bianca a quella nera. Questa antologia aveva anche il merito di raccogliere un’identità nazionale e ora, in “Murder Most Foul”, è come se Dylan avesse scritto la seconda parte e ci dicesse “adesso andate avanti voi”.
“Murder Most Foul” è una delle più potenti preghiere laiche mai scritte e dichiara una fede profondissima nella musica. Dylan vuole dirci che tutti questi brani servono per resistere nel buio della vita. Un effetto molto profondo, una ricerca del passato e di un senso da ricostruire. Fermo, di fronte alla morte. L’anima si è persa. Bob Dylan continua a cercarla nella musica. E noi con lui.

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