Come Re Lear senza Cordelia, è tornata “Succession”

Creata da Jesse Armstrong, già autore di “Veep”, e prodotta da Will Ferrel e Adam McKay (“La grande scommessa”, “Vice”), “Succession” è ambientata a Manhattan e racconta la storia della famiglia Roy, guidata dal magnate della comunicazione Logan Roy (ispirato al tycoon Robert Murdoch). Come anticipa il titolo, il tema è quello dell’eredità, patrimoniale e culturale, di un impero mediatico rivolto alla classe media (il canale di informazione fa riferimento a “Fox News”, la tv di Murdoch nota per le sue posizioni estremamente conservatrici): dalla prima stagione i figli di Logan Kendall, Roman, Shiobhan e Gordon stanno combattendo per assicurarsi la posizione di comando, in particolare Kendall, che sembra essere l’erede naturale ma che, oltre a lottare con una dipendenza da droghe, non trova mai la chiave per conquistarsi definitivamente la fiducia del padre.

 

I Roy sono veramente ricchi, quando hanno fretta si muovono in elicottero, raramente li troviamo a livello del suolo ma più spesso nei grattacieli, in aereo, in barca: a parte Shiobhan, l’unica figlia femmina che si è costruita una carriera da consulente politica diversi gradini sotto a Olivia Pope, sono tutti volgari e aggressivi, prepotenti nei confronti dei meno abbienti, e portatori malati di rancore. Durante la prima stagione c’è una tremenda festa del Ringraziamento, che è giusto solo qualche scalino sotto “Festen” di Vintenberg: perché ovviamente, parlando di famiglia, tutta la narrazione ruota intorno ai momenti di ritrovo, malattie, feste, matrimoni, mentre intorno l’odio scorre a fiumi tra questi figli che odiano il padre e che ad ogni passo rischiano di diventare a loro volta quel padre che odiano.

 

Nella seconda stagione Logan getta Shiobhan nell’arena dove si lotta per il trono mostrandole la carota delle chiavi del regno, tenta una scalata a un canale concorrente di informazione di alto livello, combatte contro un tentativo di OPA sulla propria azienda, bullizza la famiglia allargata del consiglio di amministrazione durante una gita aziendale in Ungheria in una scena che sembra presa da un film di Peter Greenaway, risponde in tribunale di uno scandalo legato a molestie sessuali e in alcuni casi decessi dei lavoratori “sacrificabili”, invisibili da lassù.

 

In questa terza stagione (in onda su Sky Atlantic) Kendall è in guerra contro la famiglia, e la famiglia come sempre è in guerra contro sé stessa: “Lo dovresti sapere ormai, che non c’è niente che possa imbarazzarci”, dice qualcuno a un certo punto, ed è praticamente un motto di famiglia. Logan e Kendall si affrontano a distanza cercando di procurarsi alleati e di tenere tutti sotto controllo seguendo la semplice logica del “keep your friend close and your enemies closer”. Mentre si cerca un sacrificio di sangue, pezzi di famiglia vengono a chiedere pezzi di patrimonio, le parole più usate sono “snake” e “undermining”, e i fratelli Roy vivono schiacciati tra la paura che Logan sia davvero come Moby Dick, la voracità predatoria che pulsa nel loro sangue nuovo e la sempre più precisa sensazione che Kendall sia effettivamente un tremendo pathetic loser. A proposito di Kendall, che è il vero protagonista, è uscita da qualche giorno questo profilo sul New Yorker dedicato a Jeremy Strong, che intervista l’attore e i membri del cast, che di fatto racconta come Strong sia un maniaco ossessivo esattamente come il suo personaggio.

 

Comunque, nonostante Roman abbia la faccia incredibile di Kieran Culkin e le battute migliori di quello che non ce la fa a prendersi troppo sul serio, Logan sceglie Shiobhan (perché è la figlia femmina e le femmine adesso valgono doppio, lo sappiamo tutti no?) per dare un nuovo volto alla società, ma neanche lei ci sta a fare solo la pedina, e l’odore del sangue adesso è dappertutto.

È una bella serie “Succession”, con poco successo di pubblico perché insomma si parla molto di finanza, ma con un ottimo livello di scrittura, uno stile di regia ben definito, bei personaggi, dialoghi interessanti con una buona dose di humour: ha un bel ritmo, perché tutti vivono ad altissimo livello di stress, sul filo di qualcosa che potrebbe rovinarli nel giro di un secondo, ma ha anche qualche lungaggine e insomma “Billions”, che ha la stessa ripetitività nel racconto, è scritta così bene che anche dopo cinque stagioni la tensione tra ogni puntata la sa mettere in scena molto meglio.

Non mi sto lamentando eh, però al posto di questo ennesimo giro di lotte intestine preferirei vedere il prequel dei Roy, l’infanzia dei Roy, e tutto quello che si nasconde dietro la sigla iniziale.

 

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