“Your Honor” e Voltaire che non viveva a New Orleans


Ci sono un sacco di nomi importanti dietro “Your Honor”, produzione Showtime distribuita in Italia da Sky, e ora disponibile su SkyGo e Now Tv: c’è il regista Peter Moffat (vincitore di due Bafta per la serie tv britannica “Criminal Justice”, che lo stesso Moffat ha adattato per la versione statunitense in “The Night of” con John Turturro), ci sono Robert and Michelle King, sceneggiatori e produttori di uno dei legal meglio scritti del piccolo schermo “The good wife”), c’è Bryan Cranston di “Breaking Bad”, Michael Stuhlbarg ( “A serious man” dei fratelli Coen, “Chiamami col tuo nome” di Luca Guadagnino, “La forma dell’acqua” di Guillermo Del Toro), c’è Margo Martindale brillante come fosse appena uscita dalla sé stessa di “Bojack Horseman”.

La serie, un adattamento di Moffat dalla serie israeliana “Kvodo” parte subito fortissimo, si prende a malapena il tempo di presentare i personaggi: a New Orleans, dove Michael Desiato (Cranston) è un giudice “giusto” che diffida dei modi sbrigativi al limite e oltre l’abuso che la polizia locale adotta nei confronti degli afroamericani. Suo figlio adolescente esce per portare un fiore sulla tomba della madre assassinata l’anno precedente ma rimane coinvolto in un incidente stradale. Sulla soglia della stazione di polizia per denunciare l’accaduto, Desiato capisce che l’altra famiglia coinvolta è quella di un potente malavitoso locale, Jimmy Baxter (Stuhlbarg). E mentre l’uomo di giustizia comincia a infrangere la legge per proteggere suo figlio, il criminale vuole solo vendetta, il ragazzo è divorato dai sensi di colpa, la tensione continua a salire e tu inizi ad agitarti e a sussurrare ai personaggi come facevi quando leggevi “Delitto e Castigo” e Raskòl’nikov no, non devi andare a costituirti per aver ucciso la vecchia no. La costruzione drammaturgica tiene, la scrittura è solida, anche se volano ogni tanto battute eccessivamente didascaliche come “Non si giudica un uomo sulla base di quello che potrebbe diventare” (e mi ricordo ancora con rimpianto quella puntata di “The Good Wife” dove Will Gardner si scontra con un avvocato inglese e gli dice “When you want to intimidate someone, don’t use so many words. Intimidation is not a sonnet”, sono dieci anni che cerco l’occasione giusta per citarla e adesso la infilo qui, per ricordarmi che eccellenti scrittori sono i King).
Tutti cercano un colpevole, e la città si schiera su due fronti, che vede scontrarsi le gang afroamericane e gli scagnozzi dei Baxter. Entrano diversi personaggi duri come il muro, come l’avvocatessa “che guarderà il procuratore dritto negli occhi e scommetto che sarà lui a battere le palpebre per primo”, e mentre il figlio sensibile fa il fotografo come la madre morta e porta avanti un progetto sul guardare in faccia quello che fotografi e tu continui a bisbigliare no Raskòl’nikov no, non farlo, scopri che la sua playlist è uguale alla tua, la prima canzone che parte è “Love will tear us apart” e balli insieme a lui pensando che noi che viviamo divorati dai sensi di colpa siamo da millenni grande materiale da sceneggiatura.
“Ci sono tanti tipi di rispetto a questo mondo: c’è un rispetto che ti guadagni qua dentro, c’è un rispetto che devi avere per strada, e poi c’è il rispetto dei Baxter che vale dappertutto, per entrambi i lati della legge”. Da queste parole pronunciate tra carcerati la serie assume sempre più la forma della tragedia greca, volano altre frasi topiche come “Voltaire non viveva a New Orleans”, i genitori Baxter sono come sarebbero Morticia e Gomez Addams se fossero cattivi davvero, i morti si accumulano e vengono offerti come tributi (che mi dà lo spunto per ricordare i fratelli Lannister, con Jaime che dice a Cersei “The things we do for love” prima di scaraventare Bran dalla torre), e gli afroamericani schierano una solenne matriarca anche lei dura come il muro.

A New Orleans i funerali sembrano feste, tutto è rito e sacralità, è un posto dove uno pensa di avere una storia triste e da dietro l’angolo spunta qualcuno che ha una storia ancora più triste. A New Orleans quando incontri una ragazza e scoprite di avere qualcosa in comune, sarà sicuramente “morte e senso di perdita”. E in tutto questo la tensione non smette mai, e progressivamente tutti i fili cominciano ad allacciarsi e la gente comincia a camminare in slow motion, le storyline si moltiplicano, alcune sono annunciate, alcune scene sono forzate, e insomma ci sono diverse cose belle qui, senso di colpa, giustizia, dovere, rispetto, ritmo, ma forse dieci puntate sono un po’ troppe.

 

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