Allegro ma non troppo: l’immaginario cinematografico di Colapesce e Dimartino


Sono arrivati quarti a Sanremo, ma sono primi su Spotify, su Amazon, su Apple Music, nelle radio e nella testa di tutti noi: Colapesce e Dimartino con la loro canzone semplicissima ma mai banale interpretano perfettamente il nostro stato d’animo. Abbiamo bisogno disperatamente di non cadere dentro al buco nero che sta ad un passo da noi, ripensiamo alla nostra vita, alle cose che abbiamo lasciato cadere nello spazio della nostra indifferenza animale.

Approdati sul palco di Sanremo vestiti in colori pastello, i due si sono presentati da subito come personaggi wesandersoniani, di quelli che sembrano cool ma nascondono un enorme disagio, di quelli che sembrano commedianti e invece hanno un’anima tragica. Sono wesandersoniani nel look, nel mood (chissà perché dobbiamo sempre usare tutte queste parole inglesi), nelle coreografie, negli ambienti, e anche nel mix agrodolce che ci sta facendo ballare su un testo che parla di palazzi distrutti, bombe nemiche, figli alcolizzati, maestri che se ne vanno via. Che da sempre è la stessa salsa che ricopre tutti i film di Anderson (per quanto “Grand Budapest Hotel” mi sia sempre sembrato pannoso al punto da diventare quasi stucchevole).

Lo citano infatti tra i riferimenti del loro immaginario, mixato a quello di Aki Kaurismaki, e infatti me li vedo in qualche baraccio ammuffito e coloratissimo in qualche angolo sperduto del mondo, a cantare per quei personaggi così tristi che fanno tenerezza anche al loro regista, tanto che spesso decide di regalare loro un lieto fine.

Questo mi offre la scusa per ricordare quel film perfetto che è “I Tenenbaum”, che consacra l’ossessiva estetica geometrica di Anderson, che lo rende immediatamente riconoscibile e imitatissimo e che ad oggi rappresenta l’apice delle sue storie leccatissime di famiglie disfunzionali, di figli che cercano padri: perfetto per scrittura, ritmo, struttura, caratterizzazioni, attori, costumi musiche. I vestiti, il trucco, la pettinatura di Margot, che è il ruolo migliore di Gwyneth Paltrow altro che Oscar per “Shakespeare in love”. L’infelicità di Margot la drammaturga, figlia adottiva, quella di Richie il campione di tennis, fratello innamorato, quella di Chas il mago della finanza, vedovo paranoico, una valanga di depressione che attrae come una calamita l’amico Eli e il padre Royal, altri personaggi deludenti e delusi (“Ho sempre voluto essere un Tenenbaum”, “Anche io, anche io”), giù giù fino a quella scena magnifica con Richie davanti allo specchio e “Needle in the hay” di Elliott Smith che strazia il cuore e offusca la mente, un incredibile momento di cinema sospeso tra dolore e bellezza, i tre minuti migliori di Wes Anderson che sono un videoclip.

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