Cinema italiano che ci prova e ci riesce: “L’ultima notte di Amore”


Sto diventando così anziana che quando ho letto che il regista de “L’ultima notte di Amore”, presentato in chiusura alla Berlinale 73 nella sezione Berlinale Special Gala, è Andrea Di Stefano, mi si è spalancato davanti agli occhi il ragazzo riccioluto di un film di Marco Bellocchio del 1997 visto a una delle primissime edizioni del Bobbio Film Festival: era “Il principe di Homburg”, di cui Di Stefano era il protagonista. Venticinque anni dopo da attore è diventato regista, debuttando con una produzione internazionale, “Escobar” del 2014 con Benicio Del Toro, passando per “The Informer” del 2019 con Rosamund Pike e Clive Owen, per poi tornare in Italia tra gli sceneggiatori della serie tv “Bang Bang Baby” e ora con questo film.
Interpretato da Pierfrancesco Favino, Linda Caridi, Antonio Gerardi e Francesco Di Leva, “L’ultima notte di Amore” concentra la maggior parte nell’azione in una manciata di ore, quando Franco Amore, poliziotto sull’orlo della pensione, è in servizio per l’ultima volta. In 35 anni di onorata carriera non ha mai sparato a un uomo: sono queste le parole che Franco ha scritto nel discorso di saluto ai colleghi.

 


Ma quell’ultima notte per le strade di Milano sarà più lunga e difficile di quanto avrebbe mai potuto immaginare e metterà in pericolo tutto quello che conta: il lavoro da servitore dello Stato, il grande amore per la moglie Viviana, l’amicizia con il collega Dino, la sua stessa vita. Perché proprio alla fine della carriera quest’uomo controllato e prudente commette una leggerezza, e lo fa con la persona più sbagliata possibile, ovvero con un boss della mafia cinese. Si ripete che il suo contributo sia sempre nei confini della legalità tanto da coinvolgere l’amico e collega Dino (Francesco Di Leva), ma il gioco si rivelerà troppo grosso per loro, che sono pesci piccoli.

 


Pur essendo ambientato ai giorni nostri, il film ha un taglio da poliziottesco anni ’70 fin dai titoli di testa, rinforzato da un ottimo lavoro sulla colonna sonora di Santi Pulvirenti, e mescola con intelligenza crime story e commedia soprattutto grazie a Antonio Girardi nei panni del cognato di cui ci si può fidare solo fino a un certo punto e alla presenza di una sempre stupenda Linda Caridi (non ripeterò mai abbastanza che vale i vostri soldi e il vostro tempo il recupero di “Ricordi?” di Valerio Mieli che trovate su MUBI).


La sua Viviana, che si muove in un contesto familiare tutto calabrese, come quello dei nonni della Caridi, è un personaggio femminile articolato tra la moglie leale e Bonnie Parker, come le dice tra lo scherzo e la disperazione il suo Amore Favino. È una delle scene più belle, in un prodotto dichiaratamente di genere, ed è un dialogo tra il protagonista e la moglie in macchina.
Se qualcosa non torna, è che il film a volte sembra dimenticarsi del tempo in cui si svolge, e se da un lato tutti i protagonisti coinvolti fanno un uso fin troppo disinvolto di incriminabilissimi cellulari, dall’altro sembra inverosimile che una scena come quella sparatoria nel tunnel non venga ripresa da tutti i passanti e spammata in rete nell’arco di pochi minuti.
Ma tutto l’immaginario che sostiene il film, dal lungo travelling iniziale, che regala a Milano quell’inquietudine da metropoli corrotta, al protagonista non eroico ma capace di gestire rapidamente pensiero e azione senza allontanarsi mai troppo dalla barra della morale, pesce piccolo che diventa carpa capace di nuotare controcorrente, agli spazi stretti della casa di Amore a quelli sfarzosi dell’attico del boss, ha uno sguardo alto, sostenuto da una regia che ha la giusta ambizione.

 

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