Kosmo Vinyl ricorda la collaborazione con Ian Dury and The Blockheads e l’amicizia con Joe Strummer e i Clash

Di Kosmo Vinyl ti colpiscono subito due tratti caratteriali: il tono umile e spontaneo con cui racconta il suo contributo a un pezzo di storia del rock e l’empatia, caratteristica che aveva in comune con il suo grande amico Joe Strummer.
Kosmo è stato un autore, un produttore, un “Master of ceremonies” nel famigerato tour della Stiff Records, un consulente e soprattutto un grande amico delle band più importanti degli Anni 70 e 80, da Ian Dury and The Blockheads ai Clash e ai Jam. Kosmo è un artista a tutto tondo, che si è trasferito da Londra a New York, dove vive e lavora da molti anni, curando mostre, eventi culturali e musica per colonne sonore di film cult. Dal prossimo 10 febbraio, e fino al 10 marzo, espone, insieme all’amico attore Matt Dillon, una sua opera dedicata ai 60 anni degli Who nella mostra “The Kids Are Alright” a Palazzo dei Principi di Correggio, in provincia di Reggio Emilia.

Kosmo, la mia prima domanda è una confidenza: io sono stata, e sono tuttora, innamorata di Ian Dury, della sua capacità di trasformare il dolore in arte. Lei può capirmi…
«Ian era unico, non ho mai conosciuto qualcuno che fosse vagamente come lui. Avevo 20 anni quando lo conobbi e lui ha completamente cambiato la prospettiva con cui guardare il mondo, mi incoraggiava a parlare di cose che non avevo mai considerato. Nel 2013 ho co-curato la sua prima mostra al Royal College of Art di Londra e ho capito quanto lui fosse un artista completo, nella pittura e nella musica. Perché anche come musicista, il suo era l’approccio di un artista. Di lui mi mancano i momenti in cui scrivevamo insieme i testi e mi faceva sempre stupire o ridire a crepapelle o tutte e due le cose insieme!».
Ho visto spesso i Blockheads in concerto, per me sono tra i migliori musicisti dal vivo e dovrebbero essere molto più osannati rispetto ad altri. Il bassista, Norman Watt-Roy, è un essere quasi soprannaturale.
«I Blockheads erano essenzialmente un’unità, quando Ian si unì a loro. Erano sempre insieme – Norman, Micky e Johnny (Charlie riposa in pace). C’è una speciale alchimia quando suonano insieme, l’uno per gli altri, e questo arriva alle persone. Come tutte le band veramente potenti, e come una grande squadra, sono la somma di più parti ed esprimono una magia indefinibile. Ian diceva:“Nessuno è sulla mia stessa lunghezza d’onda come i Blockheads perché per chiunque altro è troppo difficile”».


Cosa ricorda del famigerato tour della Stiff Records?
«Ero il MC del Greatest Stiff Tour, ma me lo dissero solo il giorno prima della partenza. Sapevo di non possedere particolari competenze tecniche da poter fare il roadie, quindi non lo immaginavo. Poi sono stato molto felice ed emozionato di salire sul Tour bus. Ma la sorpresa più grande di tutte fu realizzare quanto Ian Dury e la sua band fossero bravi – dalla prima all’ultima serata, furono una rivelazione! Ogni volta che andavano in scena, per primi, secondi, terzi o ultimi, si mangiavano tutti gli altri. “Sex &Drugs &Rock’n’Roll” divenne la colonna sonora del Tour, con tutti in palcoscenico per cantarla insieme a fine serata. Era qualcosa di inaspettato e, proprio per questo, indimenticabile».
Un bel giorno, lei si mette a lavorare con i Clash.
«Conoscevo già i Clash prima di iniziare a lavorarci, ero un loro grandissimo fan. Sapevo quanto fossero sottovalutati perché erano molto più bravi di quanto si pensasse. All’inizio pensai di poter lavorare sia per Ian che per i Clash, ma dopo un po’ mi fu chiaro che dovevo scegliere e optai per i Clash – Ian non ne fu felice. Non rinnego quella decisione: sentivo di poter contribuire alla carriera dei Clash e al mondo culturale in generale, lavorando con loro. I Clash divennero la mia priorità e tutto il resto, nella mia vita privata e professionale, divenne secondario. Eravamo, e siamo ancora oggi, molto uniti. L’ultima volta che sono tornato a Londra era una domenica, lunedì ho visto Mick, martedì Paul, mercoledì Topper e la fotografa Pennie Smith e giovedì sono rientrato a New York».
L’improvvisa scomparsa di Joe Strummer è un dolore che pulsa ancora moltissimo. Era una persona fortemente empatica, io lo ricordo con le sue bambine sedute sugli amplificatori mentre faceva il supporter degli Who con i Mescaleros, divertendosi un casino. Si fermava a parlare con tutti, guardandoti negli occhi per conoscerti a fondo. Un uomo straordinario.
«Chiunque abbia conosciuto Joe sente la sua mancanza. Lui riusciva a tirare fuori la parte migliore di ciascuno, grazie alla sua compassione, all’attenzione e all’impegno che metteva nel rendere il mondo un posto migliore. Gli importava davvero delle altre persone. Voglio precisare che non era affatto naïf – era incredibilmente informato su tutto e capiva i problemi del mondo. Era profondamente convinto che ognuno potesse fare qualcosa per migliorare la vita degli altri. Amava i bambini, voleva averli sempre attorno il più possibile, una volta mi disse: “La gente si perde dietro alle cazzate mentre i bambini corrono in cerchio”».


Lei espone un dipinto per la mostra ufficiale che celebra i 60 anni degli Who a Correggio. Cosa ha ispirato quel quadro?
«Sono cresciuto nella East London, gli Who erano uno dei miei gruppi favoriti. Da ragazzo, a metà degli Anni 60, la cultura Mod mi travolse. Gli Who e gli Small Faces ne facevano parte, quindi per me erano più importanti dei Beatles e dei Rolling Stones. Andavo a tutti i loro concerti e “Meaty Beaty Big &Bouncy” per me è il miglior album di sempre. Ovviamente gli studi d’arte di Pete Townshend influenzarono la musica degli Who, e credo anche le sue letture colte, per questo andava alla ricerca delle dissonanze inserendo l’Avanguardia nel rock. Anche il co-manager degli Who (Kit Lambert, ndr) era un uomo colto e credo che Pete sia sempre stato un artista che andava oltre il concetto del rock, lo è tuttora. Più in generale, alla fine le comunità londinesi si dividevano tra il mondo dell’Arte e quello della Musica, nel 1964. Due anni dopo, Andy Warhol lavorava con i Velvet Underground perché se volevi l’attenzione del giovane pubblico, dovevi inserirti anche nel mondo della musica. Per certi versi, credo che la scena musicale in Inghilterra, almeno per un periodo, equivalse al mondo dell’arte. Per capire cosa significasse essere un ragazzo nel 1976, non c’è niente di meglio che ascoltare un album dei Clash – molto più che osservare un quadro o una scultura di quel periodo».
Gli Who hanno da poco pubblicato il Live allo Shea Stadium. C’era anche lei! E’ allora che ha capito che New York City sarebbe diventata la sua nuova casa?
«La prima volta che ho visitato New York City è stato nel 1978 con Ian, ma ero determinato a non voler amare l’America e mi autoconvincevo a non farlo. Attorno al 1980 ho persuaso Ian a tornare a New York mentre i Clash erano lì, volevo che lui li vedesse con una nuova luce, ma Ian era ancora ferito dalla mia scelta e non la pensava allo stesso modo. Intanto i Clash suonarono allo Shea Stadium con gli Who ed io trascorsi molto tempo a New York. Ho capito che volevo restarci. La considero una nazione a sé, mia moglie e i mie due figli sono nati qui e ora ci vivo da più anni rispetto a quelli in cui ho vissuto a Londra».


Lei ha scelto le musiche per la colonna sonora del film “Drugstore Cowboy” ed è diventato grande amico di Matt Dillon. Le è piaciuta quell’esperienza?
«Ho conosciuto Matt Dillon al “Saturday Night Live” con i Clash nel 1982 e siamo rimasti amici. Quando mi sono trasferito a New York, nel primo periodo lui mi ha ceduto una stanza nel suo appartamento. Io gli ho fatto ascoltare tantissima musica, lui l’ha sempre amata molto e quindi, mentre girava “Drugstore Cowboy”, mi chiese di occuparmi dei brani per il film. Le cassette che avevo fatto per lui giravano continuamente sul set e sono molto orgoglioso di aver dato il mio contributo a quella pellicola di Gus Van Sant. Più tardi, ho suggerito a Matt le musiche da usare nel film in cui ha esordito come regista, “City of Ghosts”».
Kosmo Vinyl ha ancora un sogno nel cassetto?
«Non è un sogno, ma una speranza: non sono mai diventato cinico e voglio continuare a coltivare i miei interessi cosicché anche tu possa continuare a trovarmi interessante. Nel mio sito internet parlo di me, anche se mi devo scusare:mi definisco artista, ma più che altro cerco di condividere le belle cose che conosco della vita con gli altri».

di Eleonora Bagarotti

 

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