La prima regola del Fight Club è guardare ogni cosa di David Fincher

Tra le tante visioni casalinghe di questi mesi, ce ne sono alcune che più di altre meriterebbero il piccolo rito di vestirsi e uscire per andare in sala al buio con un amico vicino. Una di queste è sicuramente “Mank”, il nuovo film di David Fincher sullo sceneggiatore Herman J. Mankiewicz, ambientato nella Hollywood degli anni ’30 dove sta sbarcando il giovanissimo Orson Welles.

Girato in un brillantissimo bianco e nero, il film, che arriverà in Italia su Netflix il 4 dicembre, racconta la storia dietro a “Citizen Kane” del 1941 (o “Quarto Potere” da noi), il film che da sempre è in testa a tutte le classifiche dei migliori film della storia del cinema, concentrandosi non tanto sulla figura di Welles, ma su quella del co-sceneggiatore Herman J. Mankiewicz, giornalista, critico teatrale, sceneggiatore appunto, alcolista e gran giocatore d’azzardo, fratello di Joseph L. Mankiewicz (quello che in 2 anni ha scritto e girato “Lettera a tre mogli” e “Eva contro Eva” portandosi a casa 4 Premi Oscar per Regia e Sceneggiatura con 2 film in 2 anni consecutivi, nel 1949 e 1950, che ha diretto “Improvvisamente l’estate scorsa” da Tennesse Williams e che ha portato a termine l’ultimo peplum della storia, quel “Cleopatra” con la Taylor e Burton tra cocci di bottiglie frantumate) e soprattutto grande amico e confidente del magnate dell’editoria William Randolph Hearst, l’ispirazione dietro al personaggio di Charles Foster Kane nel film.

Mank è interpretato da Gary Oldman, che recita insieme a Amanda Seyfried e Tom Pelphrey, Lily Collins, Tuppence Middleton, Charles Dance, Tom Burke nei panni di Orson Welles, e sono tutti già seduti in prima fila per la prossima stagione degli Oscar, anche perché il lancio migliore al film lo hanno già regalato queste ultime contestate elezioni presidenziali, citando a mani basse questa famosissima scena proprio da Citizen Kane.

David Fincher è uno di quei registi di culto che conosci anche se non lo conosci: se non sei tra quelli che citano a memoria la sequenza di apertura di “The Social Network” sarai uno di quelli che piazzano lì la prima regola del Fight Club, o magari sarai innamorato di David Mills, o di Amy Dunne, o di Marla Singer, o di Tyler Durden.


David Fincher è uno di quei registi che richiama spesso gli stessi attori, che gira e rigira una scena mille volte da mille punti di vista diversi, che vive con il mantra “devi fartene un’ossessione e restare ossessionato”, se si pensa che il suo ultimo film “Gone Girl” è del 2014 e che in trent’anni di carriera ne ha girati solo una decina. Nel frattempo, certo, ha prodotto “House of Cards”, “Mindhunter” (e la serie animata antologica “Love, Deaths and Robots”) continuando la sua serie di ritratti di personaggi, uomini e donne, a loro volta ossessivi, morbosi, ai quali basta poco per trasformarsi in assassini.
David Fincher è uno di quei registi che quando ha in mano una sceneggiatura scritta da suo padre (perché all the best cowboys have daddy issues), che parla di uno sceneggiatore e un regista che vogliono fare un film su un magnate dell’editoria ispirato a un vero magnate che li contrasta in tutti i modi, non la molla per trent’anni finché non riesce a trovare i capitali per metterla in scena.
David Fincher è uno di quei registi che quando fa qualcosa poi ne parliamo per anni, a parte “Il curioso caso di Benjamin Button”, del quale non vorrei sentir parlare mai più.

 

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