L’inaspettata svolta satirica di Pablo Larraìn: “El Conde”


Tre cose scorrono a fiumi nel sangue di Pablo Larraín: l’attrazione per personaggi che si confrontano con la morte, la fascinazione per l’horror, e l’ossessione per una resa dei conti con Augusto Pinochet. Dopo “Tony Manero, “Post Mortem” e “No – i giorni dell’arcobaleno” ovvero la stupenda trilogia al femminile di “Jackie”, “Ema” e “Spencer” Pablo Larraín è tornato a giocare a scacchi con il fantasma di Pinochet, con il Pinochet morto eppure ancora vivo de “El Conde”, commedia dark/horror che ipotizza un universo parallelo ispirato alla storia recente del Cile.

Presentato in concorso alla 80esima Mostra del Cinema di Venezia, dove ha vinto il Premio per la Migliore Sceneggiatura e approdato recentemente su Netflix, “El Conde” si apre nel XVIII secolo, Claude Pinoche, un soldato reale francese, scopre di essere un vampiro: quando assiste alla decapitazione di Maria Antonietta, decide di dedicare la sua vita immortale a combattere ogni rivoluzione, lottando contro ogni istanza di libertà finché arriva in Cile, dove si unisce all’esercito e diventa Augusto Pinochet, quello che conosciamo.

Costretto infine a ritirarsi, amareggiato da un giudizio storico sempre più critico sulla sua figura, ma mai processato da un tribunale, Pinoche finge di morire per l’ennesima volta e si nasconde in una villa in rovina nella fredda estremità meridionale del continente con la moglie Lucía e il maggiordomo Fëdor, un russo bianco che ha trasformato in vampiro che in vita addestrava i suoi squadroni della morte e che ora gli procura nuove vittime da mordere. Ma nel tempo ha perso la voglia di vivere e decide di smettere di nutrirsi di sangue umano abbandonando il privilegio dell’eternità. La notizia scuote i suoi cinque figli di mezz’età, determinati ad ereditare il patrimonio che l’immortale genitore ha nascosto in giro per il mondo, che tornano all’hacienda e assoldano una suora, Carmen, perché si infiltri nella villa come contabile e si conquisti la fiducia di Pinochet, per poi esorcizzarlo e ucciderlo.

 


Se la trama sembra tortuosa, aspettate di vedere il resto e di scoprire chi è la voce narrante di questa brutale vicenda. “Pinochet non si è mai dovuto confrontare con la giustizia. È un uomo morto in libertà e molto ricco: questa impunità lo ha reso eterno e cosa c’è di meglio di un vampiro per rappresentare l’eternità. Ho passato anni a immaginarlo come un vampiro, un essere che non smette mai di circolare nella Storia, nella nostra fantasia, nei nostri incubi”: su questa dichiarazione del regista cileno è costruito il film, satira politica potente del potere repressivo e omicida trasfigurato in una figura mitologica che per vivere deve uccidere gli innocenti.

 


Lo scrivo con la morte nel cuore: nonostante l’elegantissima confezione in bianco e nero e lo strepitoso taglio espressionista che cita palesemente Nosferatu di Murnau, Vampyr e La Passione di Giovanna d’Arco di Dreyer, la satira di “El Conde” si colloca in una terra di mezzo in cui non fa abbastanza ridere né abbastanza indignare. Il film resta inerte, raffinatissimo e freddo in mezzo a un’ordalia di cuori caldi e, al contrario del suo protagonista, non decolla, ma flette i muscoli e cade nel vuoto.

 

 

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