Parola di Quentin Tarantino


I cinema hanno riaperto, stanno riaprendo, 421 sale dicono i dati Cinetel, molte di più rispetto alla riapertura di giugno 2020, ci sono film importanti, vincitori di Oscar, “Nomadland”, “Minari”, il nuovo film di Woody Allen.

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E per celebrare il cinema oggi parliamo di un documentario di un regista che gira in pellicola 70mm, che non sa cosa è il green screen, che ricostruisce tutto, anche la Los Angeles del 1969, se necessario in miniatura, che dice e pratica che “Il cinema è la mia religione”. Disponibile su MioCinema e su Prime “QT8 | Quentin Tarantino – The first Eight” ha avuto una lavorazione di qualche anno prima di essere concluso nel 2019, anno dell’uscita del suo ultimo (e nono) lavoro, “C’era una volta a… Hollywood”, ed è firmato dall’attrice e produttrice Tara Wood (già autrice di un documentario su Richard Linklater).
Tarantino inizia come autore di sceneggiature di titoli di successo come “Una vita al massimo”, scritto con Roger Avary e diretto da Tony Scott (una sceneggiatura che era scritta come non lineare e che invece Scott gira in ordine cronologico) e “Natural Born Killers” (che fu rimaneggiato a un punto tale da costringere Tarantino a ritirare la propria firma dallo script) che poi fu messo in messo in scena dal regista Oliver Stone.
Con il denaro ricavato dalle sceneggiature Tarantino esordisce alla regia nel 1992 con “Le iene” e dimostra subito uno stile inconfondibile, che influenzerà la cinematografia di tutti gli anni a venire. Dialoghi folgoranti, montaggio serrato che mescola l’ordine temporale degli avvenimenti, colonna sonora incalzante, citazioni pop e cinematografiche, le migliaia di videocassette guardate quando faceva il commesso al Manhattan Beach Video Archives si fondono in un linguaggio postmoderno che lo rende un regista di culto, fino alla consacrazione di due anni dopo con le storie surreali incrociate di “Pulp Fiction”, enorme successo commerciale con il quale vince la Palma d’Oro a Cannes e l’Oscar per la Migliore Sceneggiatura Originale, due riconoscimenti che gli regalano la nobiltà della patente di “autore”. Da quel momento ogni opera di Tarantino diventa un evento e una manna per il botteghino, e se non tutti i titoli convincono allo stesso modo, il mix western e kung fu dei due capitoli di “Kill Bill” del 2003, e la favolosa riscrittura della storia di “Bastardi senza gloria” del 2009 lo confermano come uno dei registi più importanti degli ultimi trent’anni.
Sfilano davanti alla camera di Tara Wood alcune star, Tim Roth, Samuel L. Jackson, Christoph Waltz, Lucy Liu, Jennifer Jason Leigh, Michael Madsen e molti collaboratori stabili, come la produttrice Stacey Sher, uno dei testimonial più interessanti, che descrive Tarantino come un romantico, che scrive romanzi e li adatta per lo schermo, e che alla fine i suoi film parlano sempre di onore, tradimento, lealtà, e di persone che devono fare la cosa giusta. Sher dice cose così precise che sembra Joanna Hoffmann di “Steve Jobs” e racconta strepitosi retroscena, come quando ne “Le Iene” qualcuno chiede a Mr. White come sta Alabama, e sta parlando di Alabama Whitman di “True Romance”, o il progetto mai realizzato sui fratelli Vega, tutti personaggi che vivono nell’universo di Tarantino.

Le sue sceneggiature sono come romanzi dai quali non riesci a staccarti, dicono tutti. Altri commenti strepitosi arrivando da Michael Madsen che ricorda di quando doveva fare “Pulp Fiction”, ma era già impegnato sul set di Wyatt Earp e il ruolo andò a John Travolta, rilanciando completamente la sua carriera cinematografica, un altro tratto distintivo di Tarantino: “Travolta stava facendo film con bambini parlanti e improvvisamente diventa Vincent Vega”. Di “Kill Bill” dice che la scena della lotta iniziale tra Uma Thurman e Viveca Fox è la più bella lotta fra donne mai vista sullo schermo e che “La sposa meritava vendetta e noi dovevamo essere uccisi”.

O da Samuel L. Jackson, che racconta che sul set di “Pulp Fiction” erano sempre pieni di sangue, ed era “awesoooome”, o di come continuasse a rassicurare Weinstein (ci sono interi segmenti dedicati a Weinstein nel documentario, niente che non si sapesse), preoccupato perché il protagonista moriva a metà film. “Non agitarti, poi torna”, gli diceva. O da Tim Roth, che dice che sul set di “Hateful Eight” erano tutti invidiosi perché non era loro il “Red Apple moment”, ovvero la scena con il product placement, uno dei tanti inventati da Tarantino e poi inseriti nei film come appunto il tabacco “Red Apple”, o il “Big Kahuna Burger”.

E la bella storia dell’attore Robert Foster, scritturato per “Jackie Brown” che racconta che quando Tarantino lo ha approcciato ha cercato di obiettare, dicendogli che nessun produttore gli avrebbe permesso di scritturare un attore finito, e Tarantino gli ha risposto “Io scritturo chi voglio”. Foster ha fatto “Jackie Brown” ed è stato poi chiamato da Vince Gilligan di “Breaking Bad” per un personaggio che era un fixer, e che chiamavano “il personaggio Robert Foster”. E ovviamente ci sono le musiche, i set, il citazionismo se non il furto vero e proprio “Io rubo tutto: i grandi artisti rubano, non fanno omaggi”, i ruoli femminili fortissimi, da Jackie Brown alla Sposa alle ragazze di GrindHouse a Shosanna Dreyfus, Donny Donowitz e la scena della mazza tra Hitler e Brad Pitt, il tecnico degli effetti speciali che comincia a piangere e l’enorme potere e controllo sui suoi film che Tarantino ha ottenuto dopo la Palma d’Oro a Cannes per “Pulp Fiction”.

“Quentin voleva tutto e otteneva tutto”: questo racconta il documentario, una valanga di curiosità e aneddoti preziosi, di amore per il cinema e di amore per Tarantino, anche se credo che la cosa più bella che ho mai sentito dire su di lui l’ha detta Greta Gerwig, che consegnandogli il premio di Regista dell’anno nel 2020 a Palm Springs ha commentato: “Quentin Tarantino gira come se i film potessero salvare il mondo. I film possono uccidere Hitler, liberare gli schiavi, e dare a Sharon Tate un’altra estate”.
Questo, e “Inglorious Basterds” è un film che insegna ai registi come fare i film”.

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