Sporco, maledetto e subito: il cinema dentro “Babylon”


Torno su Babylon perché in questi giorni ho letto di tutto, ma soprattutto ho letto irricevibile, esecrabile, insopportabile, eccessivo, ruffiano, orrendo, mediocre, banale, indigesto, osceno, vuoto (tutto vero, tutto scritto nel web).
Posso capire l’irritazione di fronte a questo racconto-fiume che sembra scappare da tutte le parti, che addirittura si permette a volte di annoiare, che parte con cinque personaggi salvo poi perderne almeno due per strada, e poi quel finale tutto nostalgia che sembra appiccicato. Però. Se non è CINEMA questo non so cosa lo sia. Perché questo straripante racconto della Hollywood tra gli anni venti e trenta, in un passaggio epocale tra il muto e il sonoro che rivoluziona l’industria, ci mette davanti così tante scene di eccezionale bellezza che francamente, miei cari, di quello che non funziona me ne infischio.

Il film inizia con il tuttofare-per-caso Manuel Torres (Diego Calva) che incontra l’aspirante star Nellie LeRoy (Margot Robbie, con un arco narrativo vicino a quello di Clara Bow) nel mezzo di una depravatissima e lunghissima festa zeppa di bel mondo cinematografico che beve balla si droga fa sesso e altre cose molto più depravate al suono di una strepitosa Voodoo Mama. Qui compare anche Jack Conrad (Brad Pitt nei panni di John Gilbert), un super famoso che comincia a invecchiare. A questi tre protagonisti si aggiungono Sidney Palmer (Jovan Adepo), giovane trombettista jazz di colore, la cantante sino-americana Lady Fay (Li Jun Li), icona queer, e una serie di altri personaggi tra il vero e il falso della Hollywood dell’epoca, come la regista ispirata a Dorothy Arzner, interpretata dalla moglie di Chazelle, Olivia Hamilton (qui tutte le reference)


Chi ha intervistato Chazelle il film l’ha capito benissimo: la sua riscrittura viene da un’immersione nella storia del mondo del cinema di quegli anni. Che era sporco, maledetto e subito. Improvvisato. Libero. Pericoloso: sui set nascevano carriere e morivano comparse.
La ripercorre qui, in un’intervista piena di visioni e di letture, da “Hollyood Babilonia” di Kenneth Anger (ho passato giornate a cercare la mia copia in casa e ancora non è saltata fuori dannazione) a “The Parade’s Gone By…” di Kevin Brownlow (che è già su un camion diretto in questa casa disgraziata dove tutto si crea e tutto si distrugge).
Quando arriva il sonoro, è la fine di molte carriere. Una prigione per Nellie, costretta a limitare le proprie capacità espressive. Una porta che si chiude per Jack, umiliato dalle risate del pubblico, e per Fay, che viene allontanata dagli Studios. Un’opportunità per Manny e Sidney, che perderanno pezzi di sé stessi nel processo.

Arriva anche il codice Hays e progressivamente sullo schermo tutto si ripulisce, fino alla parabola finale di “Singin’in the rain”, che ruota intorno allo stesso passaggio ballando e cantando dentro colori spumeggianti. Ma il musical di Donen e Kelly attraversa tutto il film, dalla scena di Nellie che si cimenta con le parole, molto simile alla Lina Lamont di Jean Hagen, ai costumi che le due star del muto si ritrovano a indossare, a Jack che si ritrova a cantare in coro una versione della canzone, notissima già dalla sua uscita nel 1929 (È lo stesso Chazelle a parlare di Babylon come di un “darker companion piece” di “Singin’in the rain”: del resto, “La La Land” non viene forse dritto dalla filmografia di Jacques Demy?).

Intanto i party dalla villa si spostano nel sottosopra, negli inferi di Hollywood, in una sequenza che si inabissa nei meandri del male come un film di Gaspar Noè. Fuori, Nellie continua a ballare, ma la festa è diventata un funerale. Ancora una volta Chazelle gira un film sugli sciocchi che sognano: il teatro, la musica, l’amore, lo spazio, il cinema.
And here’s to the fools who dream
Crazy as they may seem
Here’s to the hearts that break
Here’s to the mess we make

 

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