Nirvana, questi sconosciuti: il ricordo del concerto in Brianza nel novembre 1989

05 Aprile 2024 03:55

Metti una sera con gli ancora sconosciuti Nirvana e un (relativamente) sparuto gruppo di spettatori in un locale di Mezzago. Era il 26 novembre 1989, prima della grande fama raggiunta con “Nevermind” (vi tornarono in tour nel 1991, con ben altro seguito).
Il Bloom nacque alla fine degli anni Ottanta, quando vivevo due esistenze parallele. La prima mi portava di continuo a Londra, città che – musicalmente e culturalmente – è tuttora il mio ossigeno. La seconda era quella di chi frequentava pochissimo i club piacentini (ce n’erano, poi?), disinteressandosi alle correnti artistiche underground locali – non ne faccio un vanto, lo cito come un dato di fatto. Al Bloom fui invitata da Massimo Pirotta, socio e fondatore. Di sicuro, non dovette insistere. Nella nebbiosa Padania pochissimo accadeva, per chi era giovane e un po’ alternativo. Qualcuno sostiene che oggi sia ancora così, ma di sicuro all’epoca l’offerta era più povera. Così, fu naturale per me trovarmi catapultata di notte in una macchina usata e bohémienne (una Renault 4 rigorosamente rossa) alla scoperta di questa piccola-grande isola in mezzo alla campagna. Sapore di Brianza, terra orgogliosa, quasi incontaminata rispetto alla «Milano da bere» poco distante.

Quando arrivammo al Bloom per vedere «questi Nirvana da Seattle… boooh?!?», ci sembrò di trovare un po’ di quell’America lontana, culla del Grunge – lo chiamavano così – dove le ormai patinate correnti rock riecheggiavano tutte nel lontano passato. E invece quanta energia, aggressività, voglia di mordere le chitarre insieme alla vita, quella sera. La musica live dei Nirvana ti esaltava, ma ti faceva anche piangere perché dentro c’era già un grande dolore, talvolta urlato, altre volte nascosto, prima del graffio finale che sanguinava a fiotti.

Di quella sera, ricordo tutti gli amici, i dialoghi protratti sino all’alba prima di attraversare all’incontrario la brina, sudati e ancora pieni di entusiasmo e adrenalina pensando: «Oh, ‘sti Nirvana conquisteranno il mondo, scommetti? Quel Kurt Cobain è troooppo figo!».

E così, il Bloom di Mezzago si era trasformato in un pezzetto di clubbing internazionale – infatti ci tornammo. Pochi soldi, la “benza” equamente divisa, alla conquista di un concentrato di emozioni. Non ero certo tipo da discoteche, piuttosto stavo a casa ad ascoltare i miei vinili. In quegli anni – come sempre – gli Who sopra tutti, con i Beatles, i Fleetwood Mac e i Talking Heads. La mia tazzina di caffé quotidiana, però, si chiamava Bob Dylan. A tal proposito, ricordo benissimo quando al Bloom, proprio dopo il concerto dei Nirvana, smisi di essere astemia e quindi (ovviamente) mi ubriacai con sole due birre, finendo col parlare fino all’alba con Bob Dylan (o chi per lui, non so… forse lo era davvero, comunque per me sì, grazie ai “fumi” dell’alcol).

Al di là di questo personale amarcord, di Kurt Cobain e di quelle prime serate italiane dei Nirvana si è detto e scritto di tutto. Prima, durante e dopo, anche per stendere una memoria postuma dell’angelo musicale più triste della storia (l’unico a competere, per carattere e destino, con Jeff Buckley). Quella sera qualcuno non riuscì ad entrare, altri non videro nulla, due o tre portarono a casa con sé i lividi delle gomitate e un’incazzatura bruciante.

Però… che bello. Che bello lo stesso, sì. Tanto che viene voglia di tornarci, anche se oggi sentirei la mancanza di Kurt e dei miei sogni di gioventù. Magari, però, potrei ritrovarci Bob Dylan: sono di nuovo astemia e un paio di birre potrebbero far tornare lì anche lui.

di Eleonora Bagarotti

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