Vannacci a Piacenza: “Non sono razzista, ma normalità è questione statistica”

20 Dicembre 2023 16:49

“Maneggio gli esplosivi da esperto, e dunque con grande prudenza. Se il mio pamphlet è scoppiato tra le mani di qualcuno, quello non sono certo io. Il “caso Vannacci” non è colpa di Vannacci. Di quell’esplosione caso mai sono il beneficiario, visto che il mio libro “Il mondo al contrario” ha già venduto 230mila copie. Magari l’esplosione avrà sorpreso chi ci ha voluto speculare sopra in maniera pretestuosa. Qualcuno cui la miccia non ha dato il tempo di allontanarsi in tempo”.

Se intervisti un generale con esperienza di prima linea nei più delicati teatri di guerra (dall’ex Jugoslavia alla Somalia, dall’Iraq all’Afghanistan), uno che ha guidato i paracadutisti della Folgore, che è stato comandante degli incursori del “Col Moschin”, il mitico “Nono”, reggimento d’assalto ed élite operativa del nostro esercito, la metafora dinamitarda sul libro a miccia corta è il minimo che ti puoi aspettare. E il generale certo non si tira indietro. Forse è proprio per questo linguaggio schietto, brutale, ruvido, “da caserma” ironizza lui stesso, che Roberto Vannacci, 55 anni, è diventato per certi versi l’uomo del momento. Deve tutto a quel provocatorio pamphlet uscito ad agosto, un libello auto-pubblicato che “era destinato a una piccola cerchia di persone” e che invece è diventato l’evento politico-editoriale dell’autunno.

Su invito dell’Unione dei giuristi cattolici, Vannacci sarà a Piacenza stasera, alle 21, al teatro President. “Libertà” lo ha intervistato per capire meglio chi è questo atipico ufficiale che divide e fa discutere.

General Vannacci, dunque non aveva programmato di “fare il botto” col suo libro: è accaduto un po’ per caso, e ora ne gestisce le conseguenze. È così?

“Certo! Il polverone è stato alzato da qualcun altro. Io mi sono trovato nel mezzo della tempesta, ora sto solo cercando di evitare che l’onda causata da qualcuno altro mi sommerga. E poi se avessi concepito un piano del genere e avessi ottenuto questi risultati, dovrei essere annoverato tra grandi strateghi della storia, cosa che evidentemente non sono”.

Nessuna premeditazione, dunque. Ma si sarà interrogato sulle cause che hanno portato lei e il suo libro al centro del proscenio.

“Come dico nell’introduzione del libro, non credo di detenere alcuna verità assoluta, né di rappresentare la maggioranza. Moltissimi però si sono comunque riconosciuti in quello che ho scritto: forse perché lo pensavano anche loro, ma ritenendolo sconveniente e troppo “ruvido” non avevano mai espresso quel pensiero. L’ho fatto io, trattando in un unico volume tematiche che di solito vengono indagate in ambiti differenti. Alla fine il mio libro è un crogiolo di quelli che ritengo siano i pensieri più comuni di una fetta della società”.

Si è mai pentito di qualcuno di quei pareri così affilati? Quella frase su Paola Egonu che non sembra un’italiana, ad esempio? O quella sugli omosessuali che non sono normali?

“La critica deve essere abrasiva e diretta, altrimenti non è critica ma piaggeria. Non ritratterei nulla perché nel libro non c’è nessuna lesione della dignità di alcuno, non offendo nessuno. Su Egonu ho detto una banalità: certo, i suoi tratti somatici non rappresentano l’italianità. Se andassi in Giappone e avessi il passaporto giapponese, allo stesso modo nessuno mi prenderebbe per giapponese, proprio per il mio aspetto caucasico. Nessuna discriminazione, né implicazioni razziste. Stesso discorso per gli omosessuali. Mi limito a constatare che la normalità è solo una questione statistica: chi è incluso nelle minoranze, soprattutto se ristrette, non può considerarsi “normale”. Uno alto due metri e 20 non è normale, uno col 58 di piede non è normale. Chi palesa abitudini o tendenze ampiamente minoritarie, non è normale. Ma sottolineo che la normalità non è né buona né cattiva: è solo un dato statistico dal quale non possiamo prescindere. Come non possiamo prescindere da 4mila anni di storia: il giorno in cui il 50% della popolazione italiana sarà nera, questo discorso non verrà fatto. Ma oggi la realtà oggettiva non è questa: non dobbiamo avere paura di rimarcarlo”.

In una società aperta e complessa però sarebbe nostro dovere impostare un discorso più inclusivo, ragionare sulle affinità, su quello che ci fa stare insieme e non su quello che ci separa e differenzia.

“Secondo me no. Sono assolutamente contrario a questa visione. Credo che le differenze siano il sale della vita, credo che ognuno di noi per una questione identitaria voglia e debba rimarcare le differenze. Non vorrei mai vivere in un Paese dove essere tutti omologati, destrutturati, amalgamati in una stessa entità che pur includendoci tutti non rappresenterebbe nessuno. Io voglio una società in cui le differenze siano apprezzate”.

Lei si definirebbe razzista?

“Ma no, è una bestialità! Ho passato la mia vita a combattere fianco a fianco con persone dalla pelle scura, che non erano della mia etnia. Ho anche un lontano parente acquisito di origine senegalese cui sono particolarmente legato… Insomma, chiedo di essere giudicato per le mie azioni e non per i pensieri. Nel mio agire e nel mio vivere non c’è traccia di azioni xenofobe, omofobe, misogine”.

Quello che conosciamo come “politicamente corretto” dagli avversatori – la base del suo pubblico, a spanne – è chiamato “pensiero unico”, ed è visto come una cappa di ipocrita e conformistico rispetto delle identità sessuali, etniche, religiose, sociali di altri soggetti. Spariamo a raffica anche lì?

“Certo che sparo a zero. Non voglio essere imbrigliato da nessuno nella mia lettura della realtà. Non voglio che ci sia una chiave di lettura imposta, non voglio guardare il mondo attraverso un prisma uguale per tutti: lasciatemi libero di criticare e di esprimere le mie idee, sempre rimanendo nel perimetro della legalità, senza offendere nessuno. Voglio essere libero di dire anche cose sbagliate, sciocchezze che si possono buttare nella stanza delle scope. Però dire cose sbagliate, fino a prova contraria, non è e non può essere un reato: vogliamo mettere in carcere tutti quelli che pensano che la Terra sia piatta?”.

Lei nel libro rivendica il “diritto all’odio”, una parola maledetta – odio – che ormai è impronunciabile. Niente ripensamenti anche su questo termine?

“L’odio è un sentimento, non imbrigliabile, non riconducibile a norme giuridiche: quale polizia dovrebbe indagare se stiamo provando odio? Un’orwelliana polizia del pensiero come in “1984”? No, non possiamo proibire l’emozione dell’odio: sarebbe come voler vietare l’amore, la paura… Esiste, ed è normale provare odio dentro di noi. Piaccia o no, è uno dei motori delle attività umane”.

E lei chi odia, generale Vannacci?

“Odio gli stupratori di bambini, odio chi maltratta gli anziani. Odio il mio nemico, perché in guerra non puoi amare chi sta dall’altra parte e ti spara addosso. Ma una cosa è il sentimento. Un’altra è trasformare l’emozione in un atto delinquenziale: in quel caso la legge deve intervenire e punire. Ma non possiamo dire che l’odio non esiste, perché così facciamo un’opera di censura della natura umana”.

Come tutti, lei ha diritto ad avere opinioni politiche. Ma da ufficiale di una forza armata non nasce un problema quando le sue idee finiscono al centro del discorso pubblico con questo fragore? E se tutti i poliziotti, i ferrovieri, gli insegnanti, i vigili del fuoco – tutti i “servitori dello Stato” nell’accezione più ampia del termine – sentissero la stessa urgenza di farci conoscere le loro idee sulla società, sulle donne, sugli immigrati? Non basterebbe uno stadio a contenervi… E poi col suo libro non mette in discussione l’imparzialità stessa dell’esercito?

“Sicuramente le forze armate devono tenersi lontane dalla competizione politica, come è statuito dal codice dell’ordinamento militare. Ma io parlo a titolo personale e soprattutto non di politica: parlo di problemi sociali, di attualità, limitandomi a occupare tutto il perimetro che mi è consentito dalle norme. Nel libro infatti non troverà una parola sui partiti o sulle questioni legate direttamente alla politica. Non si applichi però la proprietà transitiva: la politica si occupa di sanità, ma se io parlo di ospedali magari dopo un ricovero – non sto facendo politica. Altrimenti qualsiasi cosa dicessi potrebbe essere presa come un’esternazione politica, il che non è nelle intenzioni. Certo, le mie affermazioni sono state strumentalizzate da altri a fini politici. Ma quello non sono io: in nessun modo credo di aver messo in dubbio la neutralità della mia forza armata in ordine alla competizione politica. E poi è pericoloso questo pretendere che i soldati siano degli automi: siamo uomini. Che pensano, elaborano, parlano e ogni tanto scrivono”.

Già, a proposito: lei magari non parlerà di politica, ma il suo pensiero sembra incrociare dalle parti del putinismo, del trumpismo… Sicuro di non volersi togliere la divisa per darsi alla politica? Dove si vede fra tre anni?

“Per indole e per esperienza di vita, le dico che so a malapena che cosa farò tra una settimana. Ragiono da incursore: ho vissuto con uno zaino pronto per tutta la vita, senza sapere in quale nazione o continente sarei stato il giorno dopo, quale guerra avrei combattuto. Dunque è una domanda alla quale non saprei rispondere. Per ora continuerò a fare quello che faccio da 37 anni: il soldato. Ma non mi ipoteco il futuro: in base alle opportunità e alla passione – che è alla base di tutte le mie scelte di vita – valuterò le opzioni. Potrei andare per mare, su una barca a vela. Oppure occuparmi felicemente della mia famiglia (il generale Vannacci è sposato e ha due figlie, ndr), avviare un’attività imprenditoriale. E potrei anche occuparmi di politica, perché no? Ma mi sono sempre considerato un professionista della mia missione, non vorrei diventare dilettante in un’altra missione”.

I suoi detrattori – che non sono pochi, a proposito di numeri – la accusano di essere il solito militare destrorso che ricalca schemi obsoleti. Nel migliore dei casi pensano che lei sia un vecchio arnese che non comprende il nuovo mondo, tremendamente complicato, che è già nato sotto i nostri occhi. Si sente per caso un vecchio arnese?

“Al contrario, mi sento molto originale. Se vedessi che quello che penso io lo pensano in tanti, credo che cambierei idea. Forse perché ho sempre cercato di non essere banale: mi considero il primo degli anormali. E non penso di essere un oggetto da museo. La storia va per cicli, nessuno di noi può ritenersi l’ideatore di un pensiero nuovo: quello che ho scritto non è certo inedito, ma aveva bisogno di essere ribadito con un mezzo non convenzionale – un libro scritto da un cittadino fuori dalle righe – per arrivare all’obiettivo”.

In editoria si ragiona così: se hai venduto 230mila copie col tuo primo libro, non puoi esimerti dal pubblicarne un secondo. C’è un “Mondo al contrario” volume secondo?

“Come ha scritto il “Corriere della Sera”: il secondo libro “vibra tra i polpastrelli del generale” (ride di gusto, ndr). È possibile una prosecuzione, che integri alcuni pensieri, ad esempio sulla scuola che secondo me è un altro “mondo al contrario”.

Ma in qual paese le piacerebbe vivere, generale?

“In Italia! Il mio Paese, il Paese dove sono nato, dove mi riconosco come cittadino. Mi piacerebbe che tutti noi operassimo ogni giorno per fare dell’Italia il Paese più bello del mondo. E forse è questa la miglior definizione di patriota: chi opera per migliorare ogni giorno il proprio Paese”.

Generale, questa frase suona stranamente familiare. È proprio sicuro che non farà il politico? Magari c’è spazio per un nuovo specimen, meno “educato” e più ruvido…

(Ride di gusto) – “Vivere in una caserma per 37 anni aiuta molto ad essere ruvidi. Ma io sono così. Mi dicono che ho scritto un libro da caserma: e da uno come me cosa si aspettavano, un libro di poesie?”.

L’INTERVISTA DI MAURIZIO PILOTTI SU LIBERTÀ

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