“Dopo il Live Aid ho imparato a trattare con i politici del mondo. La mia lotta non è finita”

Gli Anni 80, senza Bob Geldof, non ci sarebbero stati. La scorza irlandese del padre di Live Aid ha compiuto 72 anni ma è ancora indomabile. L’occasione per contattarlo è rappresentata da “We are the world”, il nuovo docufilm proposto da Netflix, ma le occasioni non mancano: Geldof è di nuovo in scena con i Boomtown Rats e, a differenza del passato, si racconta volentieri. Il suo ultimo album solista, in realtà, è datato 2011, ma Bob rispolvera volentieri i vecchi successi, è rimasto un attivista e ha conquistato le prime pagine manifestando contro la Brexit. Dopo anni difficili, la serenità è arrivata sposando l’attrice Jeanne Marine, che lo affianca da 18 anni durante i quali Geldof si è ripreso da due gravi lutti: le morti per overdose della prima moglie Paula Yates e della figlia Peaches. «Continuo a vivere a Dublino, tra ricordi belli e brutti, perché quella è la mia casa», dice riferendosi al suo “giro musicale”, il cui nucleo è l’amicizia fraterna con Bono degli U2.

Per l’impegno nei confronti delle popolazioni più povere dell’Africa, Geldof è stato insignito del titolo di “Sir”: uno strappo alla regola della Regina Elisabetta, che gli conferì l’equivalente KBE, destinato a chi non è cittadino del Commonwealth. A Bob, che ha ricevuto molti altri riconoscimenti, «il titolo ha fatto piacere», ma non cambia il suo sentirsi «eternamente inconsapevole » rispetto al Live Aid.

Com’è possibile riuscire, inconsapevolmente, a scuotere le coscienze di un intero pianeta sul problema della fame in Africa?

«Me lo chiedo ancora, quando ci ripenso. Di sicuro mi ha spinto quel sentimento iniziale, un moto di rabbia di fronte a una grande ingiustizia. Nell’ottobre del 1984, rimasi scioccato nel vedere alcune scene trasmesse alla tv: mostravano, senza ipocrisia, le condizioni disumane di povertà della popolazione etiope. C’erano bambini piccolissimi che morivano di stenti. Sin dai primi secondi, fu evidente che si trattava di un orrore su scala monumentale. La vergogna fu insostenibile e iniziai a pensare di fare qualcosa. Ero troppo arrabbiato… ».

La famigerata rabbia irlandese, la stessa delle canzoni dei Boomtown Rats.

«Più o meno, quella. Lei può capirmi: gli irlandesi sono gli italiani, anzi i meridionali, della Gran Bretagna, non abbiamo l’aplomb britannico ma la scorza dura».

Con quella scorza, però, lei ha fatto un pezzo di storia della musica e del sociale. Il prossimo anno sarà il 40esimo anniversario di Live Aid, quest’anno un docufilm celebra Usa For Africa. Passi importanti. Se lo im maginava?

« L’esperienza di Live Aid, per la quale c’è stato sicuramente un grosso impegno da parte mia e di tutti i musicisti coinvolti, è stata una grande scommessa. Non avevo garanzie che tutto accadesse, né che si svolgesse nel migliore dei modi. C’era molta fede da parte mia, ma tutto quanto si è realizzato non è dipeso da me. Non faccio il finto modesto, sono una persona determinata e procedo come uno schiacciasassi, ma non avevo garanzie di successo. Se tutto è andato come doveva andare, a metà degli Anni 80, è stato grazie all’unione di tutti i musicisti, anche i più grandi, che non avrei mai immaginato di poter coinvolgere. E invece, tornando al documentario “We are the world”, per la fame in Africa si sono mobilitati persino colossi come Bob Dylan e Ray Charles…».

Dai suoi incontri con ministri e dalle sue battaglie per i diritti, sembra che la voglia di procedere come uno schiacciasassi tuttora non le manchi. E’ così?

« La vita è stata dura, ho perso affetti importanti e ho provato molto dolore. Qualcosa si è rotto ma è rimasta, forse è persino cresciuta, la voglia di lottare per quelle che ritengo essere battaglie fondamentali per la dignità umana. Sono molto grato a mia moglie Jeanne: lei mi ha dato forza nei momenti più difficili. Anche avere buoni amici fa la differenza».

Uno di questi è Bono Vox. Anni fa, lei mi disse che eravate gli Stanlio e Ollio delle cause benefiche. Vorrei essere una mosca e ascoltare i vostri discorsi.

«Ore ed ore di telefonate, in effetti… continuo ad essere un fratello maggiore che dispensa consigli. Il periodo da Band Aid a Live Aid ha cambiato la mia vita, con ripercussioni nel pubblico e nel privato. Ci furono difficoltà a inviare il denaro, con relative polemiche. Nel fare un bilancio, oggi riesco ad essere lucido. Sicuramente ho imparato molto rispetto a ciò che sapevo nel 1985. Ho preso atto dei limiti, delle difficoltà, dell’importanza della diplomazia, che non è arrendevolezza. Per Paul (il vero nome di Bono Vox è Paul Hewson, ndr) è più difficile. Lui è come un fratello per me, ma è molto impulsivo. A volte mi telefona e dice: “Bob, bisogna fare qualcosa per questo e per quello. Ho già convinto gli altri a suonare in quel posto, ad andare lì, a spostarsi là…” Io gli dico: “Calma. Ricomincia da capo, fammi capire bene e pensiamoci su. Non è semplice, oggi, organizzare concerti benefici. Paradossalmente, la burocrazia è aumentata e bisogna stare più attenti a come si comunica, nel mare magnum dei social, un mondo che non mi piace affatto. Per questo, però, è ancora importante metterci la faccia: utilizzare la fama per cercare di migliorare le cose è utile, ma non scontato. Incontrare i politici è un’arte raffinata, spesso mi sono sentito dire parole che volevano dire altre cose. Ora conosco le regole del gioco e so come virare la nave a fin di bene, o comunque cerco di farlo».

Lei continua ad esibirsi e, a un certo punto, ha riunito i Boomtown Rats. Cosa l’ha spinta a farlo?

«La curiosità di vedere cosa potevamo ancora essere, in palcoscenico. Non sono deluso: siamo nati musicisti e moriremo tali. Mi soprende la risposta del pubblico, che si ricorda di noi, e come le nostre vecchie canzoni assumono un significato diverso, più attuale, in modo spontaneo».

Come Lennon, si è definito idealista. Ma le guerre continuano a infiammare la terra. Come la mettiamo?

«E’ difficile, molto difficile. Difficilissimo… si stringe il cuore, a vedere certe immagini. Credo sia importante parlare, sensibilizzare, incontrare i politici, chi ha un peso nelle decisioni del mondo. E farlo con decisione, con garbo, trasfor -mando la rabbia in qualcosa di buono. Oh Dio… parlo come un vecchio saggio?!».

di Eleonora Bagarotti

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