Le eroine di Tarantino e la sete di vendetta: un duello rosso sangue
Immaginate di essere testimoni di un atto terroristico, dove tassello dopo tassello, si crea un canale risolutivo in grado di cambiare il flusso degli eventi storici, senza tuttavia riuscire ad evitare di macchiarvi le mani di sangue. Ora immaginate di trovarvi dinnanzi ad un assassino all’opera, affamato quanto un felino a caccia; ghiotto di carne e insaziabile di vendetta. Non si tratta di un brutto sogno dal quale ci si sveglia affannati nel cuore della notte, bensì della trama di due capolavori di sua maestà Quentin Tarantino: “Kill Bill” (Vol.1 e Vol. 2) e “Bastardi senza gloria”. Trittico ideale per inquadrare meglio il complesso mondo dell’autore.
Con il cinema si accede a un universo parallelo, che al tempo stesso dice qualcosa della nostra realtà. Ma Tarantino sceglie un’altra strada, sottolineando l’impossibilità di un dialogo tra l’universo reale e quello filmico.
In questo senso, l’immagine permette di godere dell’atteggiamento ironico dell’autore, proprio per la capacità che ha nel disdire quanto viene mostrato. Con il regista statunitense, infatti, il racconto diventa beffardo, spesso perfino comico, attraverso un processo di spettacolarizzazione della violenza. Sul piano estetico ciò viene tradotto attraverso il suo iconico “splatter”: sangue di un rosso denso che sgorga innaturalmente, enfatizzato fino all’eccesso, al punto da assumere una veste ironica. Scandali visivi che riescono a scardinare la dimensione riflessiva. Ne è un esempio lo scalpo ai nazisti richiesto in “Bastardi senza gloria” dal tenente Aldo Raine (Brad Pitt) ai suoi sottoposti: un “simpatico” trofeo per lo spettatore il quale, dopo aver scavalcato la sensazione di disgusto iniziale, esce dal suo ruolo voyeuristico e sorride.
E qui si possono aprire infinite parentesi sull’estetica tarantiniana. Volendo circoscrivere l’attenzione alla fotografia, bisogna comprendere innanzitutto come il piano visivo per Tarantino giochi un ruolo fondamentale soprattutto nel disegnare i suoi personaggi, spesso stilizzati, eppure mai racchiusi nello stereotipo condiviso. Partendo dalle protagoniste dei due capolavori citati, si deduce come la donna sia la vera eroina: sensuale e combattiva. Il filo rosso segue in questo senso l’immagine di Shosanna Dreyfus (Mélanie Laurent). La donna che voleva vincere il nazismo – nei preparativi alla battaglia finale che la vedrà autrice dell’incendio appiccato nel suo stesso cinema – sceglie un trucco semplice: quel rossetto rosso che conduce l’immagine facendosi beffa dello spettatore. Chi guarda pensa di conoscere l’impossibilità del piano, ma Shosanna, al contrario delle previsioni, riesce a mettere un punto al regime criminale che paralizzò il mondo. Bionda con occhi azzurri è anche la protagonista dei due “Kill Bill”, Beatrix Kiddo (Uma Thurman), tratteggiata dalle caratteristiche tipiche del fumetto, scattante come una gazzella e ruggente quanto una tigre; l’eroina non manca mai di un dettaglio rosso in volto. Il suo sangue in questo caso, o quello dei suoi nemici, ancora una volta finalizzato a sottolineare la violenza nella sua plateale valorizzazione. La figura del regista emerge anche dalla rappresentazione del suo “feticcio filmico”, un dettaglio quasi sempre presente nei suoi capolavori: i piedi. Ma è anche a partire da questo che si comprende la bravura nella regia. La rappresentazione dell’oggetto del desiderio viene reso attraverso due fotografie differenti. Nel caso di “Kill Bill”, si assiste al dialogo tra Beatrix e il suo piede, dove la protagonista dopo l’infermità dovuta ai 4 anni di coma trascorsi su un lettino d’ospedale, arriva a ordinare al suo pollice di risvegliarsi, guardandolo con intensa ammonizione. In “Bastardi senza gloria”, al contrario, il piede è curato con smalto, corredato di un gioiello e spogliato di una scarpa che ne esalta la bellezza. Questa scena richiama la storia di Cenerentola, nel momento in cui il Principe azzurro appone la scarpetta da lei smarrita la sera del grande ballo (nel film, durante un incontro clandestino con i “nemici americani”).
Proprio quella calzatura appartenente a Bridget Von Hammersmark (Diane Kruger) diviene veicolo di un significato stravolto: lo svelamento del tradimento a cui consegue la tragica morte per mano del principe stesso, il colonnello delle SS Hans Landa (Christoph Waltz). Con questa scelta, si comprende la filosofia di Tarantino, il quale ripropone nelle sue pellicole quello che potrebbe essere definito come “il sacrificio della storia”, preferendo a essa un’autonomia finzionale. Il regista è infatti solito utilizzare scene appartenenti ai grandi classici per poi stravolgerli. È quanto accade anche nel secondo “Kill Bill” quando Beatrix, sepolta sotto metri di terra, riesce a emergere dal suo sarcofago, proponendo l’abusatissima sequenza cinematografica della mano che sbuca dal terreno, spesso utilizzata nei film horror sugli zombi. Ma nel caso di Beatrix, a riemergere non è un corpo svuotato di vita e ciondolante, bensì una donna sempre più determinata all’ottenimento della sua vendetta. Con Tarantino il cinema si completa in un gioco a incastri. Tutto partecipa al capolavoro e nulla funziona da solo. Il dialogo è vincolato all’immagine che si lega alla colonna sonora, alla simbologia e alle tematiche, le quali si susseguono con estrema coerenza film dopo film. Un gioco che non rappresenta solamente la visione dell’autore, ma descrive la firma di uno dei più influenti registi dell’audiovisivo postmoderno, nonché del cinema stesso.
di Alice Morelli
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