Parlo mai di astrofisica io? “Il sol dell’avvenire” di Nanni Moretti

Non sono tanto le recensioni, che sui padri della patria cinematografica tendono a essere tutte positive, ma il sottobosco dello sfogo, ovvero Twitter, che ti restituisce il polso della nazione su un film o un libro o il fatto del giorno. Quando sono comparsi i primi commenti sul nuovo film di Nanni Moretti, “Il sol dell’avvenire” eravamo tutti (tutti, questa categoria dell’anima per dire “noi che al cinema vogliamo bene”) un po’ in ansia. Quando abbiamo letto che erano per la maggior parte positivi, è stato come se ci avessero tolto un peso dal cuore. Adesso possiamo lasciarci alle spalle “Tre piani” e il gelo che portava con sé: a nessuno piace parlare male di un film di Nanni Moretti, perché anche al di fuori della schiera dei fan, Moretti è una maschera italiana che ci ha insegnato tanto, ci ha messo davanti alle nostre nevrosi e idiosincrasie, ci ha regalato decine di tormentoni, ha guardato e patito davanti allo sfacelo della sinistra italiana insieme a noi.

Ne “Il sol dell’avvenire” Moretti interpreta Giovanni, un regista che sta girando un film ambientato nel 1956 che ruota intorno a un giornalista dell’Unità, Ennio (Silvio Orlando), segretario della sezione del PCI del Quarticciolo e fedelissimo alla linea, e alla sua relazione con la sarta Vera, (Barbora Bobulova), anche lei iscritta al PCI, che diventa uno scontro quando, dopo aver invitato il circo Budavari, i carri armati sovietici entrano a Budapest, e la linea comincia a traballare.

 


Giovanni è sposato con Paola (Margherita Buy) che è la produttrice di tutti i suoi film, e ha una figlia Emma (Valentina Romani) che si fidanza con un uomo molto più grande di lei (Jerzy Stuhr, attore di Kieslowski, una delle molte citazioni in un film che vive di tanto cinema).
Paola sta pensando di lasciare Giovanni, e lo racconta al suo psicanalista (Teco Celio, altro attore di Kieslowski, il caso non esiste).

 


Giovanni intanto sta pensando di girare un film su una coppia che ha una storia d’amore che dura cinquant’anni ed è piena di canzoni italiane, sta scrivendo un film tratto da “Il nuotatore” di Cheever, perde il produttore Mathieu Amalric e prova a cercare una produzione Netflix, tutto mentre boicotta l’altro film che Paola sta producendo con gli occhi pazzi dell’ossessione.
E noi vediamo tutto questo, dentro e fuori dalla testa di Moretti, dentro e fuori i film di Moretti, conoscendo tutto quel Moretti del passato.

 


E quindi quante volte ho pianto, let me count: su L’Unità che titola “La via italiana al socialismo” ho pianto. Su la Buy che canta “Sono solo parole” ho pianto. Sui balli di gruppo ho pianto. Su “Stavo parlando con mia madre che è morta da dodici anni” ho pianto. Sulla storia d’amore che dura da cinquant’anni ed è piena di canzoni italiane, di belle canzoni italiane, ho pianto sempre.

 


“Il regista è uno stronzo al quale voi permettete di fare di tutto” diceva Margherita Buy alter ego registico di Moretti in “Mia madre”: e Moretti è il regista stronzo che sta per girare un film sulla fine di tutto e invece no, ha ragione la sarta Vera, “Ma chi se ne frega della politica, questa è una storia d’amore. Stai girando una storia d’amore e non lo sai”.

 

 

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