Prima della tragedia: la quinta stagione di “The Crown”


La famiglia è un “sistema” e la famiglia reale è un “Sistema” all’ennesima potenza: la parola percorre tutta la quinta stagione di “The Crown”, una stagione funerea, che prepara la tragedia del prossimo capitolo, la morte di Diana, che torna con il volto e il fisico tremendamente somigliante di Elizabeth Debicki. Tutto il cast è rinnovato: la regina è Imelda Staunton, Margaret è Leslie Williams, Filippo è Jonathan Pryce, Camilla Parker-Bowles è Olivia Williams, Charles è Dominic West, anche troppo attraente in una stagione tutta dedicata a ricostruire il personaggio del principe sotto una luce benevola, Charles portatore del rinnovamento politico, ambientale, sociale e dei diritti di nuova generazione nella monarchia polverosa.

Più ci avviciniamo ai nostri anni e al racconto che tutti conosciamo, meno “The Crown” sembra capace di coinvolgere e il mix di storia e romanzo che nell’arco delle prime quattro stagioni ci ha affascinato appare affaticato: del resto, cosa possono raccontarci di nuovo sulla donna più fotografata del mondo e sul divorzio più famoso della storia?


Ma siamo noi, non sono loro: perché il lavoro di Peter Morgan è sempre giusto, sfumato, ricco di particolari e di personaggi rotondi e in questi dieci episodi prepara con precisione l’atmosfera luttuosa della monarchia in decadenza, e il colpo tremendo, inaspettato, che la morte di Diana porterà al regno di Elisabetta II, e che lo stesso Morgan ha già raccontato perfettamente nella sceneggiatura di “The Queen” di Stephen Frears.


Comincia a essere smarrita Elisabetta, confusa davanti alla televisione via cavo, attaccata dai giornali e dal figlio che le rinfacciano “la sindrome della Regina Vittoria”, ovvero di non essere in grado di lasciare al timone a chi dovrà affrontare il futuro, ovvero Carlo, ambizioso, frustrato, che si vede invecchiare senza potere, nemmeno quello di decidere con chi passare il resto della sua vita.
Perde il “Britannia” che è “espressione galleggiante della mia persona”, così costoso da mantenere che nemmeno John Major, un primo ministro così apprezzato e così vicino alla corona che riceve l’incarico di mediare le trattative del divorzio tra Carlo e Diana, riesce a salvarlo, e che il governo di Blair, quello della “New Britain”, che fa della lontananza della monarchia dal paese reale la propria bandiera, liquida appena insediato.


Si trova vecchia, si guarda le rughe del collo, mentre Filippo stringe amicizia con Penny Knatchbull, che ha trent’anni di meno ed è piena di quella curiosità che Elisabetta non ha mai avuto. Elisabetta, calma, stabile, costante, ligia al dovere, che preferisce giocare con i suoi cani. Elisabetta che racconta alla nazione il suo “annus horribilis”, il 1992, quello dei divorzi, degli scandali, di Windsor che brucia davanti ai suoi occhi.
Il sistema e la metafora: mai come in questa stagione la famiglia si trova a riflettere su sé stessa, su quello che rappresenta e su quello che non rappresenta più. La casa brucia, i figli divorziano, si risposano, Margaret la testimonial di tutti gli outsider sbatte in faccia alla sorella tutto quello che le è stato negato. Margaret che rivede Peter Towsend interpretato da Timothy Dalton che è stato il suo James Bond, Margaret che dice che la famiglia distrugge chiunque sia diverso, chiunque abbia una personalità propria, come Edward, come Diana. E non si sfugge a Diana, al suo sorriso e ai suoi battiti di ciglia, alle sue pettinature e ai suoi vestiti, Diana che scrive la sua storia di nascosto, Diana ingannata da Bashir per il rilascio della famosa intervista, Diana che vive a Kengsinton House, il “lebbrosario”, il “deposito delle vecchie zie pazze”, Diana che va a cena con i Fayed in un’anticipazione dell’incidente di Parigi, Diana che sarà il destino di tutti, e un’ombra permanente sulla monarchia.

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