Nessun dorme al teatro Municipale. Turandot e più che l’amore la forza bruta

23 Marzo 2024 00:00

Fotoservizio Elisa Malacalza

Premessa d’obbligo. L’opera, la Turandot che al Municipale non si sentiva riecheggiare da ventuno anni, è uno scoglio nel mare per chiunque. E nella serata di venerdì 22 marzo tutti hanno fatto l’impossibile ottenendo un risultato che è stato generalmente gradito, soprattutto da chi è ormai terrorizzato dall’entrare in un teatro e trovarsi una Turandot ambientata – per dirne alcune – in un ospedale o in una carrozzeria (è capitato, potrebbe capitare, ma la Piacenza di dna verdiano è filoconservatrice e non gradirebbe).

Qui, comunque, chi si aspettava un fiorire di ventagli, draghi, ideogrammi e rosse lanterne non ne ha trovato traccia nella mise-en-scène geometrica del regista Giuseppe Frigeni pensata nel 2003 e ripresa nell’occasione da Marina Frigeni.

Salvate due o tre stereotipie dell’immaginario targato Pechino che non scade per fortuna nell’effetto kolossal, il resto è uno spazza-via anche di colori, di cui vengono nei costumi di Amelie Haas salvati il bianco (il ghiaccio della principessa “fredda come una spada”, Turandot), il grigio spesso e dominante, il rosso (eros e thanatos), e il verde della più applaudita donna angelica, la melodicamente dolce e luminosa Liù, ovvero Jaquelina Livieri, argentina.

L’effetto scenico minimale (scordatevi un gong d’oro) è però compensato da un saliscendi di gradini, scale, porzioni che scorrono. Cos’altro è, in fondo, la stessa vita?

Quella scalinata rivela le teste mozzate di diciotto pretendenti di Turandot, immerse in un tappeto rosso sangue, o ancora il sacrificio estremo di Liù, e ancora, quando si ricongiungono, segnano il passo all’unione tra la principessa (il soprano canadese Leah Gordon dal robusto valore attoriale) e il principe ignoto, Calaf (il solido e ben strutturato Angelo Villari).

Attenzione però: l’amore, finale di Franco Alfano dell’opera lirica più cinematografica di tutte (siamo del resto nel 1928, a quattro anni dalla morte dell’inarrivabile Giacomo Puccini), in questa serata che vede in buca l’eccellente orchestra Arturo Toscanini, la bacchetta di Marco Guidarini e sul palco (forse troppo relegati considerata la loro potenza) il coro lirico di Modena e il coro del Municipale con Corrado Casati, oltre alle voci bianche del teatro comunale di Modena, finisce irrigidito da una conclusione muscolosa, maschile, antropica, del resto anticipata dagli stessi movimenti a scacchiera, dai mimi, dall’effetto ricercato di un teatro delle marionette.

Lei, Turandot, è a terra; e la sua veste color ghiaccio di principessa capace di sterminare i pretendenti per riscattare lo stupro alla sua antenata viene portata all’imperatore dal principe come fosse un trofeo, una pelle di leone tra le mani di un qualche bracconiere. Così lei è una Medea tra le mani di Teseo.

La scelta, forse, è quella di mostrare la forza bruta (che del resto era la stessa mostrata dall’assenza di pietà di lei, pronta anche a condannare il suo popolo), cui fa da controaltare Giacomo Prestia nel ruolo di Timur, l’anziano, il saggio, il padre.

Applausi per tutti (quasi nulli i “bravi” e anche nessun fischio, che sarebbe stato immeritato), ma con un tono più caldo per le belle voci del Grande Cancelliere Ping, Fabio Previtati, del Gran Provveditore Pang, Saverio Pugliese, e del Gran Cuciniere Pong, Matteo Mezzaro.

Un “bravo” arriva: è al termine della romanza “Nessun dorma”, che non ha sbavature.

Si dice che il vero piacentino melomane sia il loggionista che ascolta l’opera dando le spalle al palco, per non farsi influenzare. Sono figure che si vedono sempre più raramente, ma tra i presenti in un teatro da tutto esaurito non mancano gli affezionatissimi, e addirittura persone arrivate apposta da Firenze per assistere a quest’opera che non fa sentire le oltre due ore e mezza di rappresentazione.

Per il resto ci si porta a casa un messaggio sincero della Turandot: la morte è una, la vita è una. Usciti lucevan le stelle per il Municipale affollato, per l’opera invenzione tutta italiana, per i cento anni dalla morte di Puccini e per la sua incompiuta dove l’amore prova a ricucire, e chissà se ce la fa.

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