No carbone, no party: così la Cina è rimasta senza corrente elettrica

04 Ottobre 2021 06:00

In breve:

  • Quasi metà delle aziende cinesi ha subito le conseguenze dei black-out
  • La Cina dipende ancora molto dal carbone, che ha visto il proprio prezzo alzarsi ed è diventato introvabile sui mercati
  • La transizione ecologica a tappe forzate sta mettendo sotto pressione la rete del Paese

La Cina sta vivendo una grave crisi energetica, figlia della coesistenza di diversi fattori. La ripresa della produzione dopo la crisi del Covid, la carenza e il costo dei combustibili fossili, la mancanza di carbone (da cui la Cina dipende enormemente) e la transizione ecologica promessa dal governo (che per rispettare le tappe chiede alle aziende di ridurre i consumi, e quindi le emissioni). Ecco cosa sta accadendo.

La Cina è rimasta senza corrente

Negli ultimi giorni circa due terzi delle province cinesi hanno subito crolli nella produzione di corrente elettrica tali da costringere le proprie imprese a chiudere o interrompere temporaneamente i lavori. Nelle regioni del nord-est il problema ha toccato anche le utenze domestiche con milioni di famiglie rimaste al buio e senza riscaldamento. Il problema è rilevante. Stando alle stime di Goldman Sachs circa il 44% dell’attività industriale cinese è stata colpita dalla mancanza di corrente elettrica.

Cosa c’entra la transizione ecologica?

Nonostante negli ultimi tempi Pechino abbia ridotto la dipendenza dai combustibili fossili, le centrali elettriche a carbone continuano ad essere preponderanti nella fornitura del Paese. Stando ad un recente documento dell’Agenzia internazionale dell’energia, le centrali a carbone producono circa tre quarti dell’energia elettrica consumata dalla Cina (nel 2020). Insomma il carbone è e resta la fonte primaria e chiave per la sussistenza del Paese. Ma la dipendenza di Pechino è scesa rapidamente negli ultimi quattordici anni. Nel 2007 il carbone stava dietro al 90% dell’energia prodotta, una quota di circa il 15% in più.

Come riportato da Nikkei, il tema della transizione ecologica cinese ha un ruolo chiave in questa crisi energetica. Essendo i prezzi energetici in Cina regolati direttamente dal governo (e non liberi di fluttuare a seconda delle offerte del libero mercato di privati come in occidente), le centrali e gli operatori che producono la corrente, visti gli alti prezzi delle materie prime, non hanno particolari incentivi nell’aumentare la fornitura (perché i loro margini sono risicati, visto il blocco dei prezzi dettato da Pechino). Il tema della transizione ecologica entra qui. Mentre diversi operatori legati anche a fonti di energia pulita non sono incentivati nell’aumentare la produzione, la stragrande parte delle centrali elettriche cinesi alimentate a combustibili fossili hanno ricevuto l’ordine di tagliare la produzione. Perché? Per rispettare gli ambiziosi obiettivi di riduzione dell’emissione di gas serra nell’atmosfera. Il risultato è una combinazione devastante che porta una consistente parte della Cina a dover fronteggiare una mancanza di energia elettrica.

Lo stop alla costruzione di centrali a carbone (all’estero)

La Cina ha promesso di interrompere la costruzione di nuove centrali a carbone all’estero. Un primo passo verso la neutralità climatica che ha grandi risvolti in termini di geopolitica. La Cina è infatti di gran lunga (ma proprio di gran lunga) il principale finanziatore di nuove centrali a carbone all’estero. Secondo il Global energy monitor Pechino starebbe attualmente contribuendo alla costruzione di centrali per un totale di 42.220 megawatt in giro per il mondo, principalmente in Bangladesh, Vietnam, Mongoli e Indonesia. Una scelta più legata ad esigenze di approvvigionamento e rafforzamento dei mercati limitrofi di sbocco che non di mera beneficenza. Dietro alla Cina nella classifica dei finanziatori c’è il Giappone con soli 2.200 megawatt (oltre venti volte meno).

Lo stop alla costruzione all’estero però al momento non intacca le centinaia di centrali a carbone in procinto di essere realizzate in patria. Un numero che sovrasta ogni altra nazione mondiale.

La Cina parte tra l’altro da un primato mondiale di unità a carbone già attive e in funzione.

No carbone, no party

La Cina avrebbe anche la capacità di generare l’energia elettrica richiesta da popolazione e aziende ma, semplicemente, non ha sufficiente carbone per alimentare le centrali. Come riportato da Cnbc alla fine del 2020 la Cina ha interrotto le importazioni di carbone dall’Australia come ritorsione per le elevate tensioni tra i due Paesi. Una scelta forte che ora Pechino sta pagando a caro prezzo, in quanto pochi mesi dopo è arrivata l’ombra della crisi energetica in tutto il mondo. I prezzi del carbone in Cina sarebbero saliti anche del 40% nell’ultimo anno, mettendo sotto pressione i produttori, impossibilitati per scelta governativa a scaricare gli aumenti sulle utenze. Gli ambiziosi obiettivi di riduzione delle emissioni di CO2 hanno fatto il resto, costringendo le centrali a ridurre le importazioni di carbone, contrarre l’entità delle riserve e arrivare a questo punto, con una produzione centellinata e una economia lasciata a stomaco vuoto.

Il grande lavoro per ridurre l’emissione di CO2

Negli ultimi decenni la Cina sta compiendo sforzi titanici per far coesistere una crescita economica (con conseguente aumento della domanda di energia elettrica) con un piano di rientro dalle emissioni di anidride carbonica. Sia chiaro, il colosso resta uno dei principali “inquinatori” del pianeta Terra, ma va sottolineato come negli ultimi due decenni il Pil (ovvero la grandezza dell’economia, per dirla in parole povere) sia cresciuto ad un ritmo superiore rispetto alle emissioni di CO2. L’intensità “carbonica” dell’economia cinese si è infatti fortemente ridotta dall’inizio del millennio. Mentre nel 2000 la Cina emetteva circa 655 grammi di CO2 per ogni dollaro di Pil generato (con un picco di oltre 800 grammi intorno al 2005), nel 2010 questa cifra è scesa a 616 grammi e a 412 grammi nel 2020. Una contrazione del 37%, che però resta un successo solo in termini relativi (ovvero in proporzione alla crescita dell’economia cinese). Osservando i crudi numeri in assoluto l’inquinamento di Pechino è diventato decisamente più rilevante, passando da 4 miliardi di tonnellate a 11 miliardi di tonnellate di CO2 emessi dal settore energetico dal 2000 al 2020. Un incremento di una velocità inferiore a quella del Pil ma pur sempre un aumento rilevante.

La promessa di un futuro senza carbone

Il presidente cinese Xi Jinping ha preso sul serio il tema della neutralità climatica, imponendo al proprio Paese un poderoso piano di rientro dalle emissioni di CO2. Una promessa anche al resto del mondo dato che, senza la Cina, ogni progetto o scenario di neutralità climatica globale diventa un sogno irrealizzabile (secondo le stime dell’Iea). La Cina è la seconda economia mondiale (la dinamica ovviamente è a suo favore per un futuro sorpasso ai danni degli Stati uniti) e le sue centrali a carbone – solo quelle cinesi – costituiscono circa il 15% delle emissioni globali di gas serra.

Stando all’accordo preso di fronte alle Nazioni unite nel dicembre 2020, il governo cinese ha promesso di ridurre le emissioni di anidride carbonica per unità di Pil di oltre il 65% rispetto ai livelli del 2005 entro il 2030, con un contestuale incremento della quota di fonti rinnovabili di circa il 25% e notevole espansione della capacità dei propri pannelli fotovoltaici. La strada, viste le statistiche sopracitate, è particolarmente lunga e tortuosa.

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