Non ho mai visto Steven Soderbergh girare un brutto film

Oltre a essere il piu’ giovane regista esordiente ad aver vinto una Palma d’Oro a Cannes (nel 1989, con “Sesso, bugie e videotapes”, oltre ad aver vinto un Oscar contro se stesso (nel 2.000, quando vinse per la Migliore Regia di “Traffic” e perse con “Erin Brockovich”), oltre ad aver girato l’”heist movie” del secolo (“Ocean’s eleven”, nel 2001), ad aver realizzato il film pandemico piu’ vicino a quello che abbiamo sperimentato (“Contagion”, nel 2011) e ad essere l’unico fan di “Mad Max: Fury Road” più entusiasta di me, io non credo di aver mai visto Steven Soderbergh girare un brutto film.
Non ho visto tutto eh, ma mi piacciono anche quelle opere minori come la famiglia maledetta di “La truffa dei Logan” (del 2017, su Chili) quella provincia americana, quelle atmosfere altmaniane che d’improvviso virano ancora sul film del rapina improbabile e perfetta, che risponde a questa altrettanto improbabile domanda: Cosa può fare Daniel Craig con due penne alla candeggina, del sale finto e due pacchetti di orsetti gommosi?

Anche quelli passati sotto silenzio come “Panama Papers” (del 2019, produzione Netflix), dark comedy stilosissima brillante e veloce (a livello degli Ocean’s, pure meglio degli Ocean’s), adattamento di “Secrecy World: Inside the Panama Papers Investigation of Illicit Money Networks and the Global Elitel” del reporter investigativo e vincitore del premio Pulitzer Jake Bernstein che sfreccia attraverso un caleidoscopio di comiche deviazioni in Cina, Messico, Africa (via Los Angeles) e Caraibi, fino all’incidente dei Panama Papers del 2016, quando i giornalisti fecero trapelare i documenti segreti criptati dei clienti di alto profilo di Mossack e Fonseca, interpretati rispettivamente da Gary Oldman e Antonio Banderas. Una materia ostica raccontata con un taglio tra i Coen e Adam McKay, un film riuscitissimo dove il personaggio di Meryl Streep, la signora Ellen Martin, rappresenta la chiave della storia a diversi e inattesi livelli di lettura.

E adesso, nell’attesa di “No sudden move2, un altro film sul colpo grosso

con un super cast, su Chili (ma non in sala purtroppo) è arrivato questo “Let them all talk”, ambientato tutto su una nave di extra lusso, dove la scrittrice Alice Hughes (Meryl Streep, elegantissima sempre in nero), vincitrice del Premio Pulitzer, è stata invitata in Inghilterra per ritirare un premio letterario, e decide di farsi accompagnare dalle sue due migliori amiche del college (che non vedeva da trent’anni), Roberta (Candice Bergen, che ha il personaggio migliore e sa cosa farne) e Susan (Dianne Wiest, con un taglio di capelli tra Jean Seberg e Mia Farrow), oltre che dall’amato nipote Tyler (Luca Hedges). Girato in due settimane su un vero transatlantico e parzialmente improvvisato sul set, “Let them all talk” ci racconta qualcosa sullo stato della letteratura con il solito stile e con così tante parole che sembra quasi Woody Allen, con diversi attori di Woody Allen, affollato di personaggi intellettuali come nei film di Woody Allen, con quella malinconia su relazioni e sentimenti così tipica di Woody Allen. Un piccolo film leggero e squisito che porta avanti tanti piccoli inganni e interrogativi, e che sa chiuderli con dolcezza.

 

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